| Carissimi,
come detto, la mia idea su questo racconto lungo è ancora "in divenire" e disposta a mutarsi. Ritengo però per ora che la sua stesura sia stata per Scerbanenco una specie di "esercizio" e che abbia svolto, per una parte della sua produzione successiva, un ruolo propedeutico. Ma, per partecipare alla discussione, abbozzo qualche pensiero e mi scuso per la lunghezza e per il carattere rapsodico del mio ragionamento. Premetto che ci sarebbero osservazioni importanti di carattere extratestuale da fare sulla genesi di questo testo, che però vedrò se svolgere in futuro. Comincio, per ora, riportando due brani tratti da due lettere:
«Dal punto di vista artistico è di una monotonia esasperante. Dopo le prime venti pagine uno già sa che tutto ciò che accadrà e si dirà, sarà brutto, amaro, lercio, cinico. Uno già sa che non vi sarà mai uno spiraglio di luce, un sollevarsi alla poesia, che tutto, e tutti, fino all’ultima pagina si agiterà inesorabilmente e vanamente nel fango, nell’abiezione. Come sono false e stolide le opere che ci danno l’immagine di una vita tutta rosa, così sono false e stolide quelle che ci dipingono tutto di nero. La vita è una gamma senza fine di colori, e non si raggiunge la verità artistica se nei confini precisi di un’opera non si rievoca questo illimitato trascorrere di sfumature. Essendo poi un romanzo falso, l’immoralità del soggetto, dello stile, dei personaggi, non ha più alcuna giustificazione. Io non sono certo scandalizzato da tanta turpitudine, ma il fatto che questa turpitudine sia fine a se stessa, me la rende invisa. E poi che noia, questo cinismo, quanto è vecchio - risale ai sofisti - come sono spuntate ormai le sue armi. E a nulla riesce l’autore quando getta sul suo libro le nebbie fumogene di un vago senso di mistero, e di irreale. È solo un espediente che non mi convince. Vi sono opere moderne, che pur sulla stessa via di spietata amarezza, raggiungono l’arte - mentre questa non la raggiunge - come Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin o Il postino suona sempre due volte di James Cain. In queste opere - e altre ancora - che arrivano al calore della perfezione, l’immoralità è in funzione estetica ed è quindi moralità; la brutalità rende più acuto il clima lirico ed è quindi giustificata, anzi necessaria. Tutto ciò non avviene in questo “viaggio” in cui la valentia tecnica innegabile non riesce a nascondere la caducità dei presupposti che l’hanno ispirata».
Mi sembra un testo densissimo e chiarissimo sul pensiero dell'autore. Ebbene, l'autore del brano (la lettera è indirizzata a Felice Menghini, è datata 18 maggio 1944 e si trova ora in Lettere sul confine a pp. 277-278 ) è Giorgio Scerbanenco. Parla di Viaggio al termine della notte di Céline e non, come potrebbe sembrare a prima vista a chi non conosce il mittente, di Annalisa e il passaggio a livello (che anzi nasce precisamente in quei giorni, forse prendendo spunto proprio dal Viaggio di Céline). Possibile che una condanna così "chiara" esca dalla penna dell'autore di un testo così "scuro" come Annalisa e il passaggio a livello? Assurdo? Contraddittorio? Apparentemente sì. Ma leggiamo un altro brano della stessa corrispondenza e risalente a poche settimane dopo:
«in molti libri - come Nuova York - una lettura attenta, scopre un tormento morale. Nelle vere opere d’arte tutte queste brutture sono esposte, non con la sadica compiacenza di Céline, ma come per dire: è troppo brutto, è troppo orribile, non deve essere così. È vero che in queste opere non c’è luce, ma esse ispirano il desiderio della luce. Certo, questo avviene nelle migliori, che sono poche, e il resto non è che immoralità compiaciuta, cioè non arte. D’altra parte, l’epoca è quella che è, e quest’aria torbida non è solo negli scritti, nell’arte in genere, perfino nella scienza - vedi psicanalisi - ma un po’ nel cuore di tutti. E l’artista, forse, se ne difende, e così difende tutti coloro che lo comprendono, esprimendola, buttandola fuori in un’opera d’arte che non è mai la torbidezza in sé, concreta, ma la sua rappresentazione, e quindi il giudizio (leggi condanna) di questa stessa torbidezza. Solo da questo punto di vista io apprezzo alcune di queste opere moderne; e solo per questo io stesso non chiudo la porta a questo clima corrotto, arido e brutale che è nell’aria, e lo riverso in alcuni miei scritti perché mi pare che in fondo costituisca uno dei miei doveri d’artista. Mentirei - e cioè farei azione artisticamente sbagliata e moralmente falsa - se per seguire quei principi morali che pure sono in me, non dessi pure ascolto ad altre voci che non posso negare od abolire, e che sono le voci che corrono in questi ultimi anni per il mondo. Esse esistono, e i migliori lottano contro di esse, ciascuno secondo la propria capacità, il politico con buoni programmi di pace, il soldato con le armi quando questa pace è rotta, il sacerdote con la preghiera - o il libro, come nel Suo caso -, l’artista con la rappresentazione spietata di un mondo che non apparirebbe in tutto il suo orrore se si continuasse a coprirlo coi veli di un pericoloso moralismo. A un certo punto la benda è sporca e bisogna scoprire la piaga. Sempre si è lottato, sempre si lotterà contro questi mali che secondo le varie epoche assumono varie forme, ora più ora meno acute. Questa lotta è eterna, forse è l’eterna battaglia contro il Maligno. A volte bisogna combattere con le stesse armi del nemico, torbido contro torbido, orrore contro orrore» (lettera di Scerbanenco a Menghini dell'estate 1944, in Lettere sul confine, pp. 280-283).
Ora: in Annalisa e il passaggio a livello avviene questo? Si sente, davanti alla bruttura (nel testo), la condanna «è troppo brutto, è troppo orribile, non deve essere così»? Ispira il desiderio della luce? O si tratta di «immoralità compiaciuta» e esclusivamente nichilista? E, a parte questo, la poetica di Scerbanenco (se pensiamo alla sua intera opera) è davvero così? O no? E la lotta tra il bene e il male di cui parla Scerbanenco, qui si trova? A livello di enunciato sembra del tutto assente. Davvero per Scerbanenco l'orrore si combatte con l'orrore? Il fine giustifica i mezzi? Si può perseguire la moralità con l'immoralità? Nel testo in discussione, mancando ogni adesione avvalorativa (anche da parte del narratore), bisogna sottolineare il distacco completo dell'enunciazione dal personaggio protagonista (e credo anche da tutti gli altri personaggi). In nessun momento Annalisa è simpatica, e nemmeno si sforza di piacere al lettore, di "fare bella figura". Quello rappresentato è un mondo assurdamente piatto, cinico, senza giustizia e senza etica, che non cattura mai l'empatia del lettore. Anche in altri testi di Scerbanenco si trova questo clima cupo, la violenza, l'oscenità, ecc., ma mi sembra che comunque in genere (forse con un'altra eccezione) si possa trovare anche lo spiraglio di speranza, la possibilità di uscire dal vortice, un elemento positivo o comunque un senso nascosto anche nell'assurdo. Se non altro una condanna (magari non esplicita, ma intrinseca all'enunciazione) del male. Qui c'è o non c'è? Credo che il testo (in termini tecnici bisognerebbe parlare di enunciazione o istanza enunciante) condanni il nichilismo qui onnipresente. Ma le domande che tenevano occupato Scerbanenco erano: a) etica ed estetica devono andare di pari passo? Si può rappresentare l'immoralità in un'opera d'arte? La sua risposta era sì, a condizione che non ci fosse compiacimento. Ma poi è nata una seconda domanda: b) e se il compiacimento c'è, può spingersi fino all'estrema conseguenza? Un'opera d'arte può escludere ogni condanna del male? Può rappresentare il male, avallarlo e condividerlo in tutto e per tutto? Il male può essere bello? Io credo che questo testo sia stato un esperimento, una sorta di tentativo di camminare sulla lama di un rasoio affilato, in cui Scerbanenco ha provato a percorrere una strada che a lui sembrava assurda fino alle ultime conseguenze. Ma poi, credo, non ha sentito il risultato consono alla propria poetica, e infatti è stato un episodio isolato e una strada non più percorsa. Probabilmente l'"esercizio" gli è stato però utile per... ciò che è venuto dopo. Aggiungo che un mio amico mi ha giustamente suggerito di fare attenzione ai nomi propri... E poi è doveroso rinviare ancora al saggio di Paolo Lagazzi intitolato Scerbanenco: la guerra nel cuore (in L'ora d'oro di Felice Menghini, Poschiavo 2009, pp. 171-189). Ciao!
Edited by L'ora d'oro - 6/1/2010, 18:07
|