Annalisa ed il passaggio a livello, e Tecla e Rosellina

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orrest
view post Posted on 6/1/2010, 09:16




Molto belle le riflessioni fatte da l' ora d'oro pero' prima di dire la mia vorrei avere notizie su dove trovare il libro " fresco di stampa" in modo da poterlo studiare anche io e dare personali interpretazioni sulle parole di Giorgio!
 
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tommaso berra
view post Posted on 6/1/2010, 09:42




è un sellerio. colgo l'occasione per segnalare che contiene un refuso che mi ha tratto in inganno e giustamente ha provocato il disappunto di l'ora d'ora: al termine di "annalisa" si dice che fu scritto a poschiavo, magliaro e coira. in realtà magliaro non esiste. esiste magliaso, piccolo comune del canton ticino (malcantone) in riva al lago di lugano, dove, ci dice l'ora d'oro, scerbanenco trascorse mesi molto amari. buona lettura, orrest.
 
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orrest
view post Posted on 6/1/2010, 10:57




CITAZIONE (tommaso berra @ 6/1/2010, 09:42)
è un sellerio. colgo l'occasione per segnalare che contiene un refuso che mi ha tratto in inganno e giustamente ha provocato il disappunto di l'ora d'ora: al termine di "annalisa" si dice che fu scritto a poschiavo, magliaro e coira. in realtà magliaro non esiste. esiste magliaso, piccolo comune del canton ticino (malcantone) in riva al lago di lugano, dove, ci dice l'ora d'oro, scerbanenco trascorse mesi molto amari. buona lettura, orrest.

Si tommaso sapevo che annalisa fosse un sellerio, ma mi sono espresso male, il mio riferimento era al libro di cui fa cenno L'ora d'oro "fresco di stampa", insomma un qui pro quo che ho anche risolto con L'ora d'oro...riguardo ad annalisa spero a breve di comprarlo.
 
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tommaso berra
view post Posted on 6/1/2010, 11:28




infatti mi sembrava strano che proprio tu, pioniere di incursioni scerbanenchiane, chiedessi notizie su uno scerbanenco, visto peraltro il magnifico apparato bibliografico di questo forum. ho pensato che erano i postumi delle gozzoviglie di natale. chiedo venia.
 
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Grea[t]!
view post Posted on 6/1/2010, 12:08




CITAZIONE (L'ora d'oro @ 5/1/2010, 14:13)
... "per incominciare", eh!
Beh, "per cominciare", Tommaso, hai colto un punto assai difficile:
- perché il mio ragionamento necessiterebbe di una lunga spiegazione che non riesco ancora a svolgere qui:
- perché dovrei parlare di materiale di cui per ora non posso parlare;
- perché non ho ancora una chiave di lettura completamente convincente e sostenibile (e non sono sicuro che Scerbanenco stesso l'abbia avuta: mi pare significativo che, pur potendolo fare, Scerbanenco non abbia mai pubblicato questo racconto lungo o romanzo breve).
Comunque, una parola importante l'hai detta tu: "nichilismo".
La parola "disincanto", invece, non mi convince del tutto, perché presuppone un'epoca dell'"incanto"; e non sono sicuro che tale epoca sia esistita in Scerbanenco, perlomeno nel senso esistenziale del termine. "Disillusione"? Non so. Comunque io rilevo somiglianze (ma solo parziali) con questo testo nei coevi Tecla e Rosellina e Lupa in convento (fino a poco tempo fa tutti e tre inediti).
Distinguerei invece nettamente, per quanto pressoché coevi anch'essi, Non rimanere soli e Il mestiere di uomo. Ma, per quanto più ottimisti, non credo che essi siano testi dell'"incanto".
Un discorso a sé va fatto, credo, per Il cavallo venduto.

"Per cominciare", nell'attesa di esprimere un pensiero compiuto mio, riporto un brano dell'articolo di Gian Paolo Giudicetti, tratto dal suo saggio intitolato I polizieschi di Scerbanenco degli anni Quaranta e il poliziesco italiano di oggi e contenuto in L'ora d'oro di Felice Menghini (fresco di stampa):

«Annalisa e il passaggio a livello, racconto (...) nel quale abiezione e cinismo sono ben ritratti, ma il contraltare giudicante di quell’abiezione e cinismo è assente e il testo non risulta né compassionevole né sdegnato, bensí indifferente di fronte a personaggi femminili (l’io Annalisa e la sua serva ninfomane Marta, che "finiva per eccitarsi anche davanti a un garofano") aridi, che non stanno alla radice né di una profonda comicità, né di una riscoperta, attraverso una crisi, della lucidità» (p. 146).

E poi un brano di Paolo Lagazzi, tratto dall'articolo Scerbanenco: la guerra nel cuore, contenuto nello stesso volume uscito a cento anni dalla nascita di Menghini.

«Annalisa e il passaggio a livello è (...) il più “maledetto” tra i romanzi svizzeri di Scerbanenco: un libro quasi programmaticamente giocato sul filo della malvagità. Del cinismo, la vedova Annalisa si è fatta un vessillo: nulla per lei ha valore, e i corpi (indifferentemente maschili e femminili) con cui si congiunge non sono che occasioni di un piacere risibile e falso, trastulli grezzi e vacui, oggetti di scherno. Il sentimento primo che ritma i suoi giorni è un odio sordo per tutti gli esseri umani a partire dal padre, che definisce "il cretino cogitante" per i suoi studi filosofici. Quest’odio continuo trova una specie di sollievo unicamente nelle fantasie omicide da lei coltivate, nell’attesa che qualcuno, prima o poi, venga
maciullato dal treno che passa accanto alla villetta in cui abita. (...) Capace di provocare le nostre false certezze, il romanzo suscita e tollera letture diverse
» (pp. 175-176).

Ma poi è molto interessante leggere lo sviluppo dell'interpretazione del bravissimo Paolo Lagazzi, che evidentemente non posso riportare per esteso!

La parola disincanto, preciso, concordando con L'ora sul concetto di "disincanto esistenziale", viene utilizzata da Cecilia Scerbanenco e riferita alle opere di Annalisa, Lupa in convento e Il cavallo venduto. Lascio giustamente fuori, e magari rivediamo la denominazione nel forum, Non rimanere soli e Il mestiere di uomo.
Credo che il termine possa riferirsi a due ambiti ben distinti:

1. Lo stile. In Annalisa - e anche ne Il cavallo venduto - Scerbanenco abbandona la narrazione che lo aveva contraddistinto fino a prima e adotta uno stile nuovo: arido e cinico in Annalisa, desolante e fortemente introspettivo ne Il cavallo. Quindi possiamo pensare, in questo caso, ad un disincanto della lingua. Conferma di ciò è secondo me il fatto che Scerbanenco non avesse mai pubblicato Annalisa, pur avendone ampia possibilità: l'autore sapeva di aver scritto il suo "unicum" e, magari, aveva dei dubbi se pubblicarlo o no, in mezzo alla marea dei suoi scritti. Era solito pubblicare tutto, è vero, ma in questo caso si tratta di una riflessione personale ed intimissima, e prima di metterla in piazza ci si pensa bene perchè magari chi la andrà a leggere quasi non riconoscerà la mano di chi l'ha scritta. Con questo non voglio dire che Scerbanenco rivoluzioni il suo modo di scrivere, da sempre tecnicamente alto, dopo Annalisa, ma, diciamo, vi aggiunge qualcosina in più, un ingrediente segreto, che sarà alla base della sua ricetta più fortunata: Lamberti.

2. L'animo. Se si vive da piccoli un dopoguerra è già difficile, ma se si soffre poi da adulti la Seconda grande guerra allora credo che tutti noi, come Scerbanenco, avremmo perso fiducia, tanta, nell'esistenza umana. In Annalisa abbiamo difronte uno scrittore che non ne può più, di Novella, di racconti, di libri, di tutto. Annalisa è il nulla, il nichilismo già citato. E' come se Scerbanenco avesse raggiunto il suo limite, e in un momento ben preciso (è ben preciso per noi, lettori di Annalisa, ma la sua consapevolezza sarà maturata in più tempo) avesse preso coscienza del mondo reale. Davanti alla morte, si ripensa agli affetti (vedi Non rimanere soli), ci si rifugia nei ricordi, ma non si pensa certmente al prossimo libro da scrivere e forse si odiano addirittura alcune pagine che sono state ingenuamente, "incantatamente", scritte anni prima. Annalisa strappa il velo di Maya, separando quello che appariva (il bellostile, la speranza, l'idea del bene, ecc) dalla verità di quel momento, il Noumeno, la guerra e la morte, che è la realtà del momento.

Anche Scerbanenco si chiede - non importa se è realtà o finzione letteraria - che cosa ci fa con quel romanzo, durante la fuga. Gli da impaccio, gli pesa, perchè lo porta con se? Perchè quel romanzo, anche se immaginario è importante e sarà il motivo per cui le altre opere future non rappresenteranno il nulla di Annalisa. Un po' di speranza, di luce, tornerà nelle opere successive, ma certamente la cicatrice che Annalisa lascia è per sempre. Ed è l'origine del noir, genere in cui Scerbanenco eccelle.
Magnifiche sono le parole di Lagazzi su Annalisa, riportate da L'ora.

Sentite, concludendo, come si interroga Scerbanenco sui miti morali. Una riflessione filosofica a tutti gli effetti, tratta dalla prefazione di Annalisa:

" Evidentemente i miti morali che ci sono stati tramandati e che più o meno, in questa o quella forma, sono stati immanenti nello spirito dell'uomo, sono però inadatti alla natura umana, e si dice natura non per contrapposto a spirito, ma per indicare la totalità dell'uomo. E sono inadatti, in quanto sia la storia in generale, sia a storia di ogni individuo sono quasi un continuo insulto a quei miti che pure vengono continuamente ripresentati come ideali. E si potrebbe quasi dire, per esempio, che nulla vi sia di più ostile all'uomo che il mito morale proposto da Kant.
E' possibile - si tratta di una domanda - postulare diversi miti morali, più adatti alla natura umana? O, non potendo rifiutare quelli inadatti che abbiamo, si deve perennemente vivere in questo assurdo di un bene conclamato e quasi mai effettivamente praticato? Perennemente vivere in guerra, noi idealmente morali, contro noi praticamente abietti? Perennemente disprezzati perchè bestemmiatori di tabù etici che non abbiamo la possibilità materiale di seguire? Sono domande. "

Quando si arriva al limite, quando non si riesce a trovare un motivo per quello che accade nel mondo, allora un po' tutti, compreso Giorgio, ci sediamo a tavolino e scriviamo domande e brevi riflessioni. Cerchiamo di capire razionalmente, con l'aiuto di carta e penna proprio come fa Arthur Jelling. Molto semplicemente e lucidamente Scerbanenco fa questo: dall'esperienza empirica della realtà constata che i presunti insegnamenti morali di Kant sono una baggianata immane. E si chiede sinceramente: è possibile che ci siano altri schemi morali comportamentali? Oppure dobbiamo continuare il teatrino?

Edited by Grea[t]! - 6/1/2010, 13:24
 
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tommaso berra
view post Posted on 6/1/2010, 14:11




veramente appassionante questo intervento di scerbancredi. vorrei soffermarmi sul problema del disincanto con una doverosa premessa: dei romanzi svizzeri ho letto soltanto "annalisa" e sto leggendo "non rimanere soli". parlando in precedenza di "annalisa" mi ero posto anch'io il problema della pertinenza del termine disincanto e avevo concluso che fosse una sorta di eufemismo perché il marchio giusto, per questo romanzo breve, sarebbe stato nichilismo, angoscia, attesa, desolazione, cinismo. io dicevo questo però in assoluto, mentre l'ora d'oro ne fa una questione di prima e dopo esistenziale di scerbanenco e la figlia cecilia, cui dobbiamo la parola disincanto come ha giustamente rilevato scerbancredi, sostiene che nella vita del padre - se non ho capito male - un periodo di incanto (il "sogno borghese") c'era stato ma la guerra l'aveva travolto. purtroppo non ho davanti a me in questo momento "annalisa e il passaggio a livello", e potrei quindi cadere in qualche imprecisione, ma mi sembra di ricordare che la sostanza è questa.
un libro che raccoglie alcuni saggi di claudio magris è intitolato "utopia e disincanto". ovvero l'utopia contrapposta alla disillusione. c'è stata utopia in scerbanenco? letteralmente disincanto è la fuoriuscita da un incantesimo, da una magia. è così per scerbanenco come scrittore e come uomo? questo non me la sento di dirlo e mi limito a registrare la divergenza tra cecilia scerbanenco e l'ora d'oro. resto però dell'idea, anche se sul dato esistenziale dovesse aver ragione cecilia, che il termine disincanto mal si addice in sé ad "annalisa", che è come un elettrocardiogramma piatto. non c'è mai un picco, non c'è mai una luce.
scerbancredi ha affermato che da questi rilievi potrebbe discendere una modifica della denominazione, nel forum, del ciclo del '44. in un primo momento ci avevo pensato anch'io, ma poi avevo accantonato l'idea come eccessivamente pignola (è un mio difetto e quindi ogni tanto mi mando a quel paese). a pensarci bene - e lo spunto mi viene dalla nota di scerbancredi - una riclassificazione sotto altra dicitura consentirebbe di recuperare "non rimanere soli", attualmente collocato in modo forse poco opportuno, considerata l'omogeneità dell'esperienza guerra-esilio di giorgio, in "altri romanzi". ecco allora che si potrebbe pensare ad una nuova denominazione come "i romanzi svizzeri (1943-1945)". o qualcosa del genere. pensiamoci bene, però, perché l'argomento ha una sua delicatezza. concludo con una pignoleria: "il mestiere di uomo" non è un romanzo. allora sarebbe meglio: "scritti e romanzi svizzeri (1943-45)". in tal modo evidenzieremmo la poliedricità di scerbanenco che non fu soltanto romanziere e giornalista ma anche moralista e chissà quante altre cose (mi pare anche poeta) come questo forum si sforza di dire fin dalla sua nascita (meno di due mesi fa!). scerbanenco scrittore a tutto tondo, non solo padre del noir italiano.
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 6/1/2010, 17:41




Carissimi,

come detto, la mia idea su questo racconto lungo è ancora "in divenire" e disposta a mutarsi. Ritengo però per ora che la sua stesura sia stata per Scerbanenco una specie di "esercizio" e che abbia svolto, per una parte della sua produzione successiva, un ruolo propedeutico.
Ma, per partecipare alla discussione, abbozzo qualche pensiero e mi scuso per la lunghezza e per il carattere rapsodico del mio ragionamento.
Premetto che ci sarebbero osservazioni importanti di carattere extratestuale da fare sulla genesi di questo testo, che però vedrò se svolgere in futuro.
Comincio, per ora, riportando due brani tratti da due lettere:

«Dal punto di vista artistico è di una monotonia esasperante. Dopo le prime venti pagine uno già sa che tutto ciò che accadrà e si dirà, sarà brutto, amaro, lercio, cinico. Uno già sa che non vi sarà mai uno spiraglio di luce, un sollevarsi alla poesia, che tutto, e tutti, fino all’ultima pagina si agiterà inesorabilmente e vanamente nel fango, nell’abiezione. Come sono false e stolide le opere che ci danno l’immagine di una vita tutta rosa, così sono false e stolide quelle che ci dipingono tutto di nero. La vita è una gamma senza fine di colori, e non si raggiunge la verità artistica se nei confini precisi di un’opera non si rievoca questo illimitato trascorrere di sfumature. Essendo poi un romanzo falso, l’immoralità del soggetto, dello stile, dei personaggi, non ha più alcuna giustificazione. Io non sono certo scandalizzato da tanta turpitudine, ma il fatto che questa turpitudine sia fine a se stessa, me la rende invisa. E poi che noia, questo cinismo, quanto è vecchio - risale ai sofisti - come sono spuntate ormai le sue armi. E a nulla riesce l’autore quando getta sul suo libro le nebbie fumogene di un vago senso di mistero, e di irreale. È solo un espediente che non mi convince. Vi sono opere moderne, che pur sulla stessa via di spietata amarezza, raggiungono l’arte - mentre questa non la raggiunge - come Berlin Alexanderplatz di Alfred Döblin o Il postino suona sempre due volte di James Cain. In queste opere - e altre ancora - che arrivano al calore della perfezione, l’immoralità è in funzione estetica ed è quindi moralità; la brutalità rende più acuto il clima lirico ed è quindi giustificata, anzi necessaria. Tutto ciò non avviene in questo “viaggio” in cui la valentia tecnica innegabile non riesce a nascondere la caducità dei presupposti che l’hanno ispirata».

Mi sembra un testo densissimo e chiarissimo sul pensiero dell'autore. Ebbene, l'autore del brano (la lettera è indirizzata a Felice Menghini, è datata 18 maggio 1944 e si trova ora in Lettere sul confine a pp. 277-278 ) è Giorgio Scerbanenco. Parla di Viaggio al termine della notte di Céline e non, come potrebbe sembrare a prima vista a chi non conosce il mittente, di Annalisa e il passaggio a livello (che anzi nasce precisamente in quei giorni, forse prendendo spunto proprio dal Viaggio di Céline).
Possibile che una condanna così "chiara" esca dalla penna dell'autore di un testo così "scuro" come Annalisa e il passaggio a livello? Assurdo? Contraddittorio? Apparentemente sì.
Ma leggiamo un altro brano della stessa corrispondenza e risalente a poche settimane dopo:

«in molti libri - come Nuova York - una lettura attenta, scopre un tormento morale. Nelle vere opere d’arte tutte queste brutture sono esposte, non con la sadica compiacenza di Céline, ma come per dire: è troppo brutto, è troppo orribile, non deve essere così. È vero che in queste opere non c’è luce, ma esse ispirano il desiderio della luce. Certo, questo avviene nelle migliori, che sono poche, e il resto non è che immoralità compiaciuta, cioè non arte.
D’altra parte, l’epoca è quella che è, e quest’aria torbida non è solo negli scritti, nell’arte in genere, perfino nella scienza - vedi psicanalisi - ma un po’ nel cuore di tutti. E l’artista, forse, se ne difende, e così difende tutti coloro che lo comprendono, esprimendola, buttandola fuori in un’opera d’arte che non è mai la torbidezza in sé, concreta, ma la sua rappresentazione, e quindi il giudizio (leggi condanna) di questa stessa torbidezza.
Solo da questo punto di vista io apprezzo alcune di queste opere moderne; e solo per questo io stesso non chiudo la porta a questo clima corrotto, arido e brutale che è nell’aria, e lo riverso in alcuni miei scritti perché mi pare che in fondo costituisca uno dei miei doveri d’artista. Mentirei - e cioè farei azione artisticamente sbagliata e moralmente falsa - se per seguire quei principi morali che pure sono in me, non dessi pure ascolto ad altre voci che non posso negare od abolire, e che sono le voci che corrono in questi ultimi anni per il mondo. Esse esistono, e i migliori lottano contro di esse, ciascuno secondo la propria capacità, il politico con buoni programmi di pace, il soldato con le armi quando questa pace è rotta, il sacerdote con la preghiera - o il libro, come nel Suo caso -, l’artista con la rappresentazione spietata di un mondo che non apparirebbe in tutto il suo orrore se si continuasse a coprirlo coi veli di un pericoloso moralismo. A un certo punto la benda è sporca e bisogna scoprire la piaga. Sempre si è lottato, sempre si lotterà contro questi mali che secondo le varie epoche assumono varie forme, ora più ora meno acute. Questa lotta è eterna, forse è l’eterna battaglia contro il Maligno. A volte bisogna combattere con le stesse armi del nemico, torbido contro torbido, orrore contro orrore» (lettera di Scerbanenco a Menghini dell'estate 1944, in Lettere sul confine, pp. 280-283).

Ora: in Annalisa e il passaggio a livello avviene questo? Si sente, davanti alla bruttura (nel testo), la condanna «è troppo brutto, è troppo orribile, non deve essere così»? Ispira il desiderio della luce? O si tratta di «immoralità compiaciuta» e esclusivamente nichilista?
E, a parte questo, la poetica di Scerbanenco (se pensiamo alla sua intera opera) è davvero così? O no?
E la lotta tra il bene e il male di cui parla Scerbanenco, qui si trova? A livello di enunciato sembra del tutto assente.
Davvero per Scerbanenco l'orrore si combatte con l'orrore? Il fine giustifica i mezzi? Si può perseguire la moralità con l'immoralità?
Nel testo in discussione, mancando ogni adesione avvalorativa (anche da parte del narratore), bisogna sottolineare il distacco completo dell'enunciazione dal personaggio protagonista (e credo anche da tutti gli altri personaggi). In nessun momento Annalisa è simpatica, e nemmeno si sforza di piacere al lettore, di "fare bella figura". Quello rappresentato è un mondo assurdamente piatto, cinico, senza giustizia e senza etica, che non cattura mai l'empatia del lettore.
Anche in altri testi di Scerbanenco si trova questo clima cupo, la violenza, l'oscenità, ecc., ma mi sembra che comunque in genere (forse con un'altra eccezione) si possa trovare anche lo spiraglio di speranza, la possibilità di uscire dal vortice, un elemento positivo o comunque un senso nascosto anche nell'assurdo. Se non altro una condanna (magari non esplicita, ma intrinseca all'enunciazione) del male. Qui c'è o non c'è?
Credo che il testo (in termini tecnici bisognerebbe parlare di enunciazione o istanza enunciante) condanni il nichilismo qui onnipresente.
Ma le domande che tenevano occupato Scerbanenco erano:
a) etica ed estetica devono andare di pari passo? Si può rappresentare l'immoralità in un'opera d'arte?
La sua risposta era sì, a condizione che non ci fosse compiacimento.
Ma poi è nata una seconda domanda:
b) e se il compiacimento c'è, può spingersi fino all'estrema conseguenza? Un'opera d'arte può escludere ogni condanna del male? Può rappresentare il male, avallarlo e condividerlo in tutto e per tutto? Il male può essere bello?
Io credo che questo testo sia stato un esperimento, una sorta di tentativo di camminare sulla lama di un rasoio affilato, in cui Scerbanenco ha provato a percorrere una strada che a lui sembrava assurda fino alle ultime conseguenze. Ma poi, credo, non ha sentito il risultato consono alla propria poetica, e infatti è stato un episodio isolato e una strada non più percorsa.
Probabilmente l'"esercizio" gli è stato però utile per... ciò che è venuto dopo.
Aggiungo che un mio amico mi ha giustamente suggerito di fare attenzione ai nomi propri...
E poi è doveroso rinviare ancora al saggio di Paolo Lagazzi intitolato Scerbanenco: la guerra nel cuore (in L'ora d'oro di Felice Menghini, Poschiavo 2009, pp. 171-189).
Ciao!

Edited by L'ora d'oro - 6/1/2010, 18:07
 
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Grea[t]!
view post Posted on 6/1/2010, 18:23




Le preziosità di Lettere sul confine ci permette di spingerci ancor più dentro il significato di Annalisa, lontano dall'essere univoco e definito.

Mi sento di concordare con L'ora riguardo ad un primo punto: in Annalisa non si combatte l'orrore con l'orrore. Anche se non c'è un minimo barlume di luce e di speranza, non penso Annalisa sia il 'dovere' di Scerbanenco per combattere, a suo modo, quei tempi.

Credo che su questo siamo tutti daccordo. Però le due domande finali che pone L'ora sono molto significative e aprono altri interrogativi.

1. Si può rappresentare l'immoralità in un'opera d'arte?
Si, anche secondo me. E Annalisa è proprio questo.

2. C'è compiacimento, in Annalisa?
Ora chiedo io, a L'ora, compiacimento del male?
Non credo. E fino ad ora posso dire che Scerbanenco non prova compiacimento del male in nessun libro che ho letto. Anzi. Però mi fermo qui, lasciando la parola a L'ora che magari può chiarirmi meglio questo secondo punto.

Certo se Annalisa, come si potrebbe giustamente pensare, fosse solo un'esperimento tecnico in cui Scerbanenco volesse dimostrare la sua capacità di dipingere tutto il male possibile, con o senza compiacimento, allora questo racconto, a mio avviso bellissimo, sarebbe meno spontaneo e perderebbe ai miei occhi fascino.
Questo perchè sono ancora convinto che dietro Annalisa vi sia soprattutto un moto dell'anima, la voglia di gridare forte l'odio di quei tempi con dietro la flebile luce che rimane presente, non in Annalisa, ma nel cuore di Scerbanenco.
Forse la mia è una visione romantica e ingenua?
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 6/1/2010, 18:44




Caro Scerbancredi,

sottolineo, se fosse necessario, che io non ho le risposte a tutte le domande. E per fortuna! ;)

Certamente l'esperienza diretta (la guerra, l'esilio, il campo profughi ecc.) fornivano a Scerbanenco suggestioni e ispirazioni buie, ma la sua vita (e anche la sua visione dell'esistenza) non era certo come quella di Annalisa, un racconto che lui stesso definì «nerissimo».
Leggo, sempre tra le lettere di Scerbanenco:

«Io sto finendo un “pauroso” racconto [Annalisa]. Poi ne ho un altro dello stesso genere. Poi questo “ciclo nero” per il momento è chiuso, e spero che per un poco usciranno dalla mia penna cose più “serene”» (lettera a Felice Menghini del 29 ottobre 1944, ora in Lettere sul confine, pp. 296-297).

Il contrasto che rileviamo tra il bene e il male nei diversi scritti di Scerbanenco (tanto più in quelli coevi, del periodo svizzero), in realtà egli lo sentiva anche dentro di sé. Menghini gliene chiese una spiegazione. E una spiegazione si trova nella lettera del 27 novembre 1944, alla quale rinvio (sempre in Lettere sul confine).
Ma forse varrebbe la pena anche di concentrarsi su quelli che Scerbanenco stesso ritiene i suoi lavori «migliori»...

Ciao! :)
 
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Grea[t]!
view post Posted on 6/1/2010, 21:26




CITAZIONE (tommaso berra @ 6/1/2010, 14:11)
scerbancredi ha affermato che da questi rilievi potrebbe discendere una modifica della denominazione, nel forum, del ciclo del '44. in un primo momento ci avevo pensato anch'io, ma poi avevo accantonato l'idea come eccessivamente pignola (è un mio difetto e quindi ogni tanto mi mando a quel paese). a pensarci bene - e lo spunto mi viene dalla nota di scerbancredi - una riclassificazione sotto altra dicitura consentirebbe di recuperare "non rimanere soli", attualmente collocato in modo forse poco opportuno, considerata l'omogeneità dell'esperienza guerra-esilio di giorgio, in "altri romanzi". ecco allora che si potrebbe pensare ad una nuova denominazione come "i romanzi svizzeri (1943-1945)". o qualcosa del genere. pensiamoci bene, però, perché l'argomento ha una sua delicatezza. concludo con una pignoleria: "il mestiere di uomo" non è un romanzo. allora sarebbe meglio: "scritti e romanzi svizzeri (1943-45)". in tal modo evidenzieremmo la poliedricità di scerbanenco che non fu soltanto romanziere e giornalista ma anche moralista e chissà quante altre cose (mi pare anche poeta) come questo forum si sforza di dire fin dalla sua nascita (meno di due mesi fa!). scerbanenco scrittore a tutto tondo, non solo padre del noir italiano.

Sposando in pieno l'indicazione di tommaso, ho mutato in home page il nome del ciclo del disincanto, accantonando appunto quest'ultima parola che ha poco convinto.
E' chiaro che si può sempre migliorare, quindi se ci sono nuove proposte per come intitolare questa sezione dei romanzi esponetele pure qui e discutiamone insieme.
:B):
 
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tommaso berra
view post Posted on 6/1/2010, 22:10




scerbancredi è una saetta. lo ringrazio per aver accolto la mia proposta, ma è bene che la discussione resti aperta. si sarebbe potuto dire, ad esempio, anche "scritti e romanzi dell'esilio svizzero", magari senza 1943-45 che allunga troppo. ma non ha molta importanza. l'importante, secondo me, è aver tolto "non rimanere soli" dalla sezione "altri romanzi" e averlo riportato, secondo un criterio di omogeneità biografica e letteraria, nel gruppo degli scritti dell'esilio, l'esperienza più amara della vita di giorgio. ora però, tocca rispondere alle sollecitazioni di l'ora d'oro con quel suo céline; che fatica, ma che bella fatica! spero di farlo presto.:rolleyes:
 
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tommaso berra
view post Posted on 7/1/2010, 12:00




cari scerbanenchiani,
sto riflettendo sulle complicate ma affascinanti sollecitazioni di l'ora d'oro e quindi non ho potuto fare a meno di consultare il magnifico "lettere sul confine" di andrea paganini. ed ecco non una riflessione ma una curiosità, che potrebbe portare nuovo lavoro al nostro scerbancredi (speriamo che non mi mandi a quel paese, ne avrebbe qualche motivo!). chiedo a l'ora d'oro: il romanzo "luna di miele", scritto nell'esilio svizzero e pubblicato nel '45, dovrebbe essere anch'esso compreso nella nuova sezione dei "romanzi svizzeri", tanto più che - a quanto ho capito da una lettera a don menghini - si tratta di un romanzo "immorale"? e ancora: ci sono altri romanzi e racconti da classificare eventualmente nella sezione svizzera? non vi sembri una questione di lana caprina, ma credo che questo periodo svizzero, così amaro sul piano umano per giorgio, sia stato una benedizione per lo scerbanenco scrittore. e malo bonum...
 
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tommaso berra
view post Posted on 7/1/2010, 16:53




ed eccoci alla nostra cara “annalisa”. la carne al fuoco è tanta e rischiamo di bruciare l’arrosto. converrà allora procedere il più schematicamente possibile. provo a fare il punto di questa bellissima discussione e vi chiedo scusa se, sia pure procedendo schematicamente, non sarò breve.
l’ora d’oro ci ha fatto notare subito che giorgio, pur potendolo, non pubblicò questo romanzo breve o racconto lungo che dir si voglia. è una sottolineatura importante e alla fine di questo intervento avanzerò un’ipotesi, anzi azzarderò un’ipotesi.
l’ora d’oro ci propone due brani di altri studiosi di scerbanenco. nel primo, di gian paolo giudicetti, si sostiene che non esiste un contraltare giudicante del cinismo e dell’abiezione di annalisa. non sono d’accordo con giudicetti: ci sono due contraltari giudicanti, il razionale pangloss e l’onirico gunnar. entrambi vorrebbero redimere annalisa.
mi convince di più il brano di paolo lagazzi (naturalmente bisognerà leggere per intero questi saggi) che si chiude in modo perfetto: “annalisa” suscita e tollera letture diverse. parole magnifiche, ha ragione scerbancredi.
l’ora d’oro ci ha poi deliziato con due brani di lettere di giorgio a don felice menghini. fatemi aprire una parentesi: ma ci rendiamo conto (pur essendo possibile non essere d’accordo con l’autore su alcuni punti) della grandezza di scerbanenco? della sua vasta cultura? del suo forte senso morale? ci rendiamo conto che egli era oltre che una prodigiosa “macchina per scrivere” una potente “macchina per leggere”?
nella prima lettera a don menghini c’è una sorta di parallelo tra luce e poesia. onestamente mi lascia perplesso e forse è la prima volta che oso criticare giorgio. ma meglio così, altrimenti rischierei di trasformarmi nel postulatore della sua causa di beatificazione. giorgio aggiunge che sono false e stolide sia le rappresentazioni “tutto rosa” sia quelle “tutto nero” della vita e parla di una gamma di sfumature che l’arte deve tener presente se vuol essere arte. è l’equivalente della splendida frase che piace a scerbancredi ed è diventata la nostra “sintesi” di scerbanenco: la vita è un pozzo delle meraviglie. c’è di tutto: stracci, brillanti e coltellate in gola. in base a questa visione della vita scerbanenco giudica con durezza il “viaggio” di céline contrapponendogli doblin e cain. testimonianza personale: io sono un lettore parziale del “viaggio”. ne ho letto circa una metà ma non l’ho terminato. eppure mi piaceva molto. non so dire perché non ho portato a compimento la lettura. forse perché quelle brutture nel fondo mi disturbavano? ma il romanzo mi piaceva. vattelappesca che cosa accade nel nostro subconscio. ma anche in questo caso giorgio non mi convince. dice che l’immoralità ha senso solo se ha una funzione estetica, per cui diventa moralità. credo che non sia agevole stabilire il criterio di giudizio.
nella seconda lettera scerbanenco stronca ancora céline accusandolo di “sadica compiacenza” nei confronti del male. e postula come ideale estetico la condanna morale della torbidezza. anche qui: è molto difficile, per non dire impossibile, giudicare se l’autore di un’opera si compiace dell’abiezione. si tratta di percezioni molto soggettive, credo.
l’ora d’oro si chiede a questo punto: “annalisa” suscita un desiderio di luce? o è solo nichilismo? ha ragione scerbanenco a dire che l’orrore si combatte con l’orrore? ma questo non è machiavellismo? mi sentirei di rispondere che scerbanenco scrivendo a don menghini di céline non entra in contraddizione con lo scerbanenco” di “annalisa”. perché nel suo romanzo la lotta tra bene e male c’è: la conducono pangloss e gunnar, ognuno a modo suo. la lotta c’è ma il bene soccombe. (chiedo scusa per l’estrema semplificazione.) e che male c’è, dal punto di vista estetico, se il bene soccombe? aggiungo un’altra riflessione: il bene è presente finanche nel più cinico dei personaggi del romanzo: gianni taur. egli è protagonista di un monologo “terribile” in cui mette sotto accusa la stupidità umana e in questo contesto inserisce un duro attacco al cristianesimo (“questi imbecilli hanno ben scritto nella loro bibbia…”). ebbene: finanche il supercinico taur sostiene che “la macchina” (cioè la vita umana) ha qualcosa di buono: la parola, l’amore e i bambini. Sono d’accordo con scerbancredi: non c’è compiacimento per le brutture della vita nello scerbanenco di “annalisa”. c’è dolorosa rassegnazione. (quanto all’affermazione di giorgio che l’orrore a volte va combattuto con l’orrore, non parlerei di machiavellismo, ma di stato di necessità. ma qui il discorso si farebbe troppo lungo).
ancora l’ora d’oro nota giustamente che annalisa non è mai simpatica né fa nulla per piacere. ma – aggiungo io – si prova pena per lei. si spera che gunnar la porti via, anche se si capisce che i presupposti per questo finale non ci sono. c’è la condanna del male in “annalisa”? sì rispondo, c’è. qualche via di fuga è almeno indicata.
i nomi propri hanno importanza, dice un amico di l’ora d’oro. sul cognome pangloss (un amante) ho già detto in altra sede: è l’ottimista leibniziano del "candide" di voltaire. sull’altro cognome, taur (il marito morto), non saprei che dire. i nomi propri sono: annalisa, marta, giovanni, bice, gunnar, gianni, donatello. altri nomi non ci sono, mi pare. il padre di annalisa non ha nome, è “il cretino cogitante”, un occasionale amante è “vice”. non riesco a capire a che cosa alluda l’amico di l’ora d’oro. mi piacerebbe saperlo.
il 29 ottobre del ’44 giorgio informa don felice che sta scrivendo un racconto “pauroso”. si riferisce a “annalisa” ma spera che dalla sua penna usciranno in seguito cose “più serene”. racconto “pauroso”, ecco l’aggettivo che potrebbe aiutarci a capire: “annalisa” non è certo “pauroso” per il lettore. è pauroso per scerbanenco. è giorgio che ha avuto paura della sua penna, vale a dire di sé stesso (pur non essendosi mai compiaciuto dell’abiezione di annalisa) e per questo forse ha deciso di non pubblicarlo. giustamente l’ora d’oro ci segnala la lettera del 27 novembre che ci fa capire meglio lo stato d’animo di scerbanenco a causa di questo racconto “nerissimo”. è la lettera di cui abbiamo già parlato altrove in cui giorgio dice di comprendere sia la vittima sia il carnefice, ma non osa mandare “annalisa” all’amico sacerdote. glielo manderà – aggiunge – solo quando avrà completato un’altra opera “grigia” che farà da contrappeso a quella “nerissima”.
concludendo: anch’io preferisco che nelle opere d’arte ci sia almeno un barlume di luce. ma se mi trovo di fronte ad uno scrittore “maledetto” non lo giudico per la sua mancanza di luce, cioè di speranza. posso apprezzarlo ugualmente.

Edited by tommaso berra - 7/1/2010, 20:00
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 7/1/2010, 17:28




Caro Tommaso,

grazie per le tue bellissime riflessioni!
Aggiungo solo due pensieri, a caldo:
- quello che un autore scrive in una lettera non è il suo testamento spirituale o estetico o etico, ma il ragionamento di quel particolare momento (magari Céline non gli è piaciuto anche per il suo stato d'animo di quel momento o per altri motivi che non conosciamo); in questo senso penso che ogni parola detta o scritta vada contestualizzata e relativizzata.
- non sono sicuro che Pangloss e Gunnar rappresentino il bene nella storia di Annalisa (se così fosse sarebbe un bene piuttosto ridicolizzato), ma anch'io, come te, ero spinto a sperare che ci fosse per lei una via d'uscita, una possibilità di riscatto. C'è (anche solo a livello ipotetico) nel racconto? Forse l'autore voleva proprio rappresentare il cinismo senza uscita. Non so.
Ciao!

PS: ho appena parlato con un'altra lettrice di Scerbanenco; tra qualche giorno ci incontreremo con un gruppo di lettori per un "Caffè letterario" su Non rimanere soli. :)
 
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tommaso berra
view post Posted on 7/1/2010, 17:48




CITAZIONE (L'ora d'oro @ 7/1/2010, 17:28)
- quello che un autore scrive in una lettera non è il suo testamento spirituale o estetico o etico, ma il ragionamento di quel particolare momento (magari Céline non gli è piaciuto anche per il suo stato d'animo di quel momento o per altri motivi che non conosciamo); in questo senso penso che ogni parola detta o scritta vada contestualizzata e relativizzata.
- non sono sicuro che Pangloss e Gunnar rappresentino il bene nella storia di Annalisa (se così fosse sarebbe un bene piuttosto ridicolizzato), ma anch'io, come te, ero spinto a sperare che ci fosse per lei una via d'uscita, una possibilità di riscatto. C'è (anche solo a livello ipotetico) nel racconto? Forse l'autore voleva proprio rappresentare il cinismo senza uscita. Non so.

caro l'ora d'oro, altrettanto a caldo: d'accordo sul fatto che una lettera non è un testamento estetico o spirituale e che va contestualizzata. d'accordo sul fatto che gunnar e pangloss come rappresentanti del bene (io penso che lo siano) vengono ridicolizzati. "annalisa" per come abbiamo detto fin dall'inizio della discussione resta un'opera tristissima, desolata e cinica, in una parola nichilista. ma non c'è compiacimento nell'autore. c'è in céline ed è un male come sostiene scerbanenco in quella lettera? questo è un altro discorso.
 
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36 replies since 10/11/2009, 17:11   774 views
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