| Cari Amici,
domani si terrà a Coira un "Caffè letterario" su Non rimanere soli. Certamente parlerò anche del nostro forum e inviterò i presenti a visitarlo per, magari, partecipare alla discussione.
Sulla sollecitazione di Scerbancredi: Intanto bisogna correggere Scerbanenco: il campo di Federico (come quelli frequentati dall'autore) non è un "campo di concentramento", bensì un "campo profughi" o un "campo per rifugiati" (in Svizzera non c'erano "campi di concentramento").
Anche a me il nome del secondo compagno di Federico nel campo aveva fatto sobbalzare sulla sedia: Jelding (simile a Jelling). Ma poi avevo lasciato perdere la suggestione, perché in effetti, a parte il nome, non c'erano somiglianze. Si potrebbe anche vedere come si chiamavano i compagni di campo di Scerbanenco, ma sarebbe una ricerca difficile.
Ora mi chiedo: non potrebbe essere che i due personaggi rappresentino due comportamenti estremi rilevabili tra gli ospiti del campo (e tra i quali era oscillato forse anche lo stesso Scerbanenco, prima e durante l'esperienza desolante del campo profughi)? Ma evidentemente è solo una speculazione senza punti di appoggio, se non la nota eleganza dell'autore prima e dopo l'esilio.
D'altra parte riporto questo brano dal coevo Mestiere di uomo di Scerbanenco, intitolato Non giudicare (è l'ultimo capitolo):
«Chi è debole? Chi è forte? Quando conosciamo qualche nuova persona, presto nella nostra mente si forma da sé, una specie di giudizio: quella persona è forte. Quella persona è debole. Quella persona è generosa, oppure è egoista. E quando abbiamo detto di uno che è un debole, o un generoso, dopo, per tutta la vita, quell’uno è sempre debole o generoso, per noi. Passano gli anni, ma il nostro giudizio non cambia, vediamo sempre quella persona nella cornice della debolezza, o della generosità. Eppure, il nostro giudizio su qualcuno, si forma nei primi momenti di conoscenza ed è spesso basato su una fuggevole impressione, o su una serie di impressioni fortuite, casuali. Ecco: vediamo un uomo in un impotente ufficio, dietro una lucida scrivania, con ossequiosi visitatori intorno. E allora per noi, quell’uomo è importante, è forte, è potente. Ma se lo vediamo presso una chiesa, vecchio, stendere la mano chiedendo l’elemosina, ecco, diciamo che è un debole, un uomo finito, che merita soltanto la nostra pietà. Ma è lo stesso uomo. E se il nostro giudizio era vero allora, quando era potente, ed era vero poi, quando elemosinava, pure erano tutti e due relativamente veri. Perché non esistono forti o deboli, cattivi o buoni, avari o altruisti, non esiste nulla di tutte queste classificazioni che ingombrano la nostra mente, ma esistono solo uomini, solo anime, che ora tendono verso la generosità ora verso l’eroismo, ora sono forti, ora sono piegate dalla disgrazia. Noi non siamo merci in scatola con una etichetta sopra: buono – cattivo. Siamo un piccolo mondo in continuo fermento, fluido, e non siamo qui per giudicarci, perché ogni nostro giudizio è in fondo vano, ma per volerci bene. Dividerci in operai o in ricchi signori, in intelligenti o stupidi, significa abbassarci, degradarci al rango delle cose che si dividono, come in animali da cortili che si dividono in specie pregiata e in specie comune. L’uomo è una sola specie: la specie umana. Una terribile specie, capace del peggiore male, ma anche del più generoso bene. Questo è il solo giudizio che possiamo dare all’uomo».
Che sia una chiave di lettura? Che Brautsch e Jelding siano due possibili declinazione contrastanti della stessa personalità, che ora tende all'eleganza e alla ricercatezza e ora alla trascuratezza? Chissà!
PS: se aveste qualche sollecitazione per il "Caffè letterario" di domani sera su Non rimanere soli, sarà benvenuta!
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