"SULLE TRACCE DEL GIALLO". SCERBANENCO VISTO DA PETRONIO, Un'opera fondamentale del grande storico della letteratura italiana

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tommaso berra
view post Posted on 9/2/2010, 13:14




“Sulle tracce del giallo”, di Giuseppe Petronio (Gamberetti, 2000), è un’opera fondamentale per chi voglia approfondire le tematiche letterarie dei romanzi polizieschi. Non è una vera e propria storia del poliziesco, visto che consiste in una raccolta di saggi, ma la grandezza dell'autore (che nella sua lunga vita ha spaziato da Boccaccio a Carducci, da Parini, al romanticismo, a Pirandello) è tale che le sue pagine sono sempre illuminanti e ricche.
Petronio cita naturalmente più volte Scerbanenco (ma anche quando non lo cita molti temi sollevati ci fanno pensare a lui), ed io intendo darne conto, ma vorrei farlo seguendo lo svolgimento del libro, caratterizzato da una robusta polemica contro coloro i quali (tra cui Sciascia) considerano il “genere” giallo non letteratura, ma paraletteratura ovvero, alla tedesca, Triviallitteratur. Ne ho già accennato in questa stessa bacheca commentando il saluto che ci ha rivolto Cecilia Scerbanenco, e a quell’intervento rinvio. Lo ripeto con altre parole, sempre di Petronio:"...il genere è un raggruppamento tassonomico o strutturale, non assiologico. Cioè, alla buona, asserire che un libro appartiene al genere o sottogenere giallo (o rosa, nero, intimista, storico e via dicendo) informa sul suo tema e sulla sua struttura, non ci dice niente sulla sua qualità, sul suo valore”. Per cui, scrive Petronio, “io ho scritto dei libri di testo, storie e antologie letterarie, e vi ho messo dentro tutti: De Angelis, Scerbanenco, Liala, Petrolini, Fo, Lucio Dalla. Todos caballeros, promossi tutti sul campo. E ora sono tutti Alta Cultura. Non stanno nei libri di testo? Non corrono i loro nomi per tutte le scuole?”.
Il professor Petronio (davvero sterminate le sue citazioni!) ci ricorda innanzitutto che uno dei primi e più noti giallisti italiani, Augusto De Angelis, il “padre” del commissario De Vincenzi, in una conferenza dei primi anni ’40 aveva rivendicato la letterarietà del romanzo giallo “come al principio del secolo aveva fatto Chesterton, come nel ’28 si era proposto di fare Gadda, come sosteneva pugnacemente Chandler”.
Interessanti anche le notazioni di carattere editoriale di Petronio, quando ci dice che nel dopoguerra il poliziesco trovò scrittori sempre più numerosi inclini a praticarlo anche se spesso autori e editori “i gialli ‘letterari’ li scrivevano e li pubblicavano, ma in collane di ‘narrativa’ senza aggettivi. Penso a Il giorno della civetta (’62) che Sciascia, nella lettera in cui lo inviò a Einaudi definì ‘giallo’ nella struttura, ma apparve nella collana prestigiosa degli ‘Struzzi’, dove apparvero anche i romanzi di Durrenmatt; ‘gialli’, sempre, ma che non si osava presentare come tali. E tuttavia anche questa pruderie di scrittori che volevano servirsi di quei temi e quegli schemi, ma non volevano essere confusi col gregge, aiutava a diffonderne il gusto, e, in un vero senso, li nobilitava”.
Petronio ricorda a questo punto che negli anni ’70 il giallo conobbe in Italia il suo secondo boom dopo quello degli anni ’30 e ’40, grazie in particolare al successo dei quattro romanzi “milanesi” di Scerbanenco, scritti alla fine degli anni ’60, e ad una serie di autori nuovi di poco successivi , tra i quali Fruttero e Lucentini, Loriano Macchiavelli, Felisatti e Pittorru. E si susseguirono i “gialli d’autore” con Pontiggia, Bonura e Veraldi.
Più volte citata, inoltre, una interessante “profezia” di Umberto Saba (anni ’40):"... come dai romanzi di cavalleria sono nati l’Orlando furioso e Don Chisciotte, è possibile che, un giorno un grande autore ricavi dallo sterminato materiale greggio dei romanzi polizieschi, un’opera popolare e di stile”. E giustamente sottolineata, da Petronio, l’assenza di Simenon da La letteratura francese (1987) del pur grande Giovanni Macchia!
Non mi dilungo sulle felicissime pagine in cui di fatto Petronio fa una storia del giallo, a partire da Poe. Né mi addentro nei meandri del conandoylismo, limitandomi a dire, con Petronio, che fino ad un certo punto della storia del giallo, visto che in questo genere si esalta la logica e la scienza, l’eroe non può essere un poliziotto normale, ma dev’essere un dilettante di genio. Del resto siamo -sottolinea l'autore- nell’età di Nietzsche. Con gli anni ’30, però, si costituiscono due “scuole” all’interno del genere: quella psicologica alla Simenon e quella d’azione alla Chandler e il giallo cessa di essere prodotto sostanzialmente anglosassone. In sintonia la scuola francese “con tante cose che vi erano state e vi erano in Francia, in sintonia l’altra con la società americana del tempo, con la sua prepotente letteratura realistica, con quel filone di dime-stories, di letteratura popolare da quattro soldi, da cui Hammet e Chandler venivano”.
Ecco “l’avvenimento di fondo, determinante per il futuro del giallo”, scrive Petronio. Ed ecco i filoni nazionalsocialista tedesco e fascista italiano. In una parola: il giallo moderno, quello che inquieta, a differenza del giallo degli anni ’30 “dove la presenza di una ‘conclusione’, pure se amara e dolorosa, rasserena ancora il lettore: lì ciò che chiamiamo giustizia è messo in dubbio e svuotato di enfasi, l’indagine scopre abissi di miseria morale”. Cambia perciò la natura dell’investigatore che è sempre meno eroe e diventa più piccino. Uno come noi: il Barlach di Durrenmatt, il Matthai dello stesso grande scrittore svizzero, poliziotti e investigatori di Scerbanenco, Sciascia, Felisatti e Pittorru, Macchiavelli, Olivieri, Sjowall-Walloo. Soffrono di ulcera, di allergia, tutti senza donna, vedovi o separati, figli ai quali pensare, amori difficili. “Che è un modo per avvicinarli a noi -scrive Petronio- ma anche di metterne in risalto evidente l’esemplarità eroica, l’esemplarità del solo eroismo possibile, pensa lo scrittore, nel mondo di oggi: un eroismo smagato e disperato, eppure tutto intriso di pietà; che spinge a una lotta senza quartiere, non si capisce bene perché: pagati male, senza fede religiosa, scettici sulla politica e sui politici, alle prese con gli aspetti peggiori del mondo, afflitti essi stessi da preoccupazioni e malattie, questi investigatori...investigano, affrontano pericoli, risolvono casi, ma sempre con un sapore amaro in bocca, con un senso avvilito di frustrazione”.
Petronio fa una serie di esempi concreti, tra i quali inserisce la chiusa di “Traditori di tutti” (1966) che definisce “capolavoro di Scerbanenco” . Una pagina “di disperata amarezza”: “In una Milano sconvolta da una delinquenza spietata, sullo sfondo di antiche crudeli vicende di guerra, sola persona pulita è la giovane americana...” (Susanna Paany n.d.r.). E Carrua e Lamberti “i due umani malinconici poliziotti di Scerbanenco, la ammirano con tutto il loro animo ma non possono fare niente per lei, nemmeno metterla in una cella a parte, isolata da ladre e prostitute”. Niente se non stimarla, conclude Petronio citando Scerbanenco.
E ancora di Scerbanenco il grande storico della letteratura si occupa quando rileva che sempre più la storia del poliziesco “si è intrecciata di anno in anno, in modi inesplicabili, con quella della narrativa contemporanea, in modi così complessi che il concetto stesso di poliziesco è entrato in crisi. La Sayers, Chandler, Scerbanenco, Macchiavelli, la James, entrano di diritto in una storia del poliziesco: i loro libri apparterranno sì al ‘giallo nobile’, al ‘giallo più’, al ‘giallo al di là del delitto’ ecc. ecc. ma restano ‘gialli’, e il lettore li sente tali: li legge come tali. Ma il Pasticciaccio? E i libri di Durrenmatt? E il romanzo di Denevi? E certi di Sciascia? E certi recenti di Malerba? Dove sta il confine tra il romanzo in cui il poliziesco aspira a essere ‘letteratura’...e quello in cui la ‘letteratura’ veste i panni del giallo?”. Questo processo di simbiosi tra poliziesco e non poliziesco, questa è la sola certezza, “sta sconvolgendo tutto: il poliziesco e il non poliziesco”.
Uno dei saggi di Petronio si conclude con queste parole: “E perché in una storia della letteratura italiana Andrea da Barberino e Antonio Pucci sì e Scerbanenco no? Agli amici l’ardua risposta”.
Sono consapevole di essermi dilungato, ma questa di Petronio è un’opera davvero importante, che consiglio di leggere integralmente. Per chi non potesse farlo ecco questa scheda, che può tornare utile nelle nostre discussioni. Devo rilevare che ho avuto l'impressione che Petronio non conoscesse il ciclo Jelling (quando Sellerio li ha ripubblicati egli era morto da qualche anno). Due modesti rilievi finali per l’editore Gamberetti, nel caso volesse ristampare il volume: a pag. 113 Scerbanenco viene chiamato Michele; a pag. 121 Duca Lamberti diventa Lombardi. Da tenere presente che alcuni di questi saggi sono nati come conferenze e nel parlato capita di fare dei lapsus. Perciò si tratta di piccole sviste che meritano non solo un subitaneo “perdono”, ma il ribadire ammirazione e gratitudine per il professor Petronio.

Edited by tommaso berra - 9/2/2010, 13:58
 
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