"Patria mia", un inedito "storico" di Scerbanenco

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tommaso berra
view post Posted on 19/11/2011, 20:29




"Patria mia" è il titolo di uno Scerbanenco finora inedito in volume, che non ha niente di giallo, di nero o di rosa e non è neppure un romanzo, ma un saggio "storico", sulla psicologia degli italiani durante il fascismo, la cui scrittura è supportata da grande tensione morale e profondo amor di patria. Dobbiamo la pubblicazione di questo saggio, che chiude degnamente l'anno scerbanenchiano, ad Andrea Paganini (il nostro L'ora d'oro), che lo ha scoperto sulle colonne del settimanale "Voce della Rezia" e lo ha fatto diventare un elegante volumetto, con il sottotitolo "Riflessioni e confessioni sull'Italia", della Biblioteca Aragno dell'omonimo editore torinese.
Scerbanenco si firmò nell'occasione Giorgio Giulivi, usando il cognome della madre, e il saggio, in quindici brevi puntate, apparve dal 17 febbraio al 9 giugno 1945, durante gli ultimi mesi dell'esilio svizzero del nostro scrittore, sulla "Voce della Rezia", un settimanale diffuso soprattutto in Mesolcina, una delle quattro valli italofone del cantone dei Grigioni.
Un saggio "storico" dunque, semipolitico scritto da una "vittima della politica", come Scerbanenco si definiva, intriso di moralismo nel senso nobile della parola, quello per intenderci che attraversa le pagine de "Il mestiere di uomo", l'altra opera scerbanenchiana che è stata pubblicata postuma in volume grazie alle ricerche di Paganini. E soprattutto un saggio di limpida nettezza antifascista che ruota attorno ad una tesi più volte ribadita dall'autore: l'esistenza di un divario profondo tra il sentimento popolare italiano e la classe dirigente fascista. Giovanni Gentile aveva proclamato invece l'assoluta identità dei concetti di "italiano" e di "fascista". "Egli è morto - scrive Scerbanenco - e non è un morto che rimproveriamo, ma ogni italiano protesterà sempre, anche al di sopra di tutte le tombe, contro questa indegna e disgustosa manipolazione della realtà".
Ad un'attenta lettura delle pagine di "Patria mia", balza agli occhi con tutta evidenza una certa generosità/ingenuità del giudizio di Scerbanenco sul "buon senso italiano" e più in generale sui suoi compatrioti in rapporto con il fascismo. Egli s'allinea, non sappiamo quanto consapevolmente, alla discussa interpretazione crociana del fascismo come parentesi e malattia morale. Se il filosofo di Pescasseroli aveva paragonato il fascismo ad una "calata degli Hyksos", dalla penna dello scrittore esce una definizione altrettanto icastica e per certi versi somigliante: "... l'Italia - scrive Scerbanenco - non era una nazione che faceva la guerra [...], era un popolo che doveva subirla, era una terra invasa da stranieri che si chiamavano fascisti e che avevano portato in casa la guerra". Ed ecco il teorema di Gentile rovesciato da Scerbanenco: non fascista uguale a italiano, ma fascista uguale a straniero invasore.
Al di là del dibattito sulla fondatezza dell'interpretazione parentetica del fascismo, bisogna dire che le pagine di "Patria mia" sono ricche di episodi, colti dall'acume del grande cronista, che fanno riflettere (e perciò sono utili per gli storici) circa un altro tema assai dibattuto, quello del consenso popolare al regime, che Renzo De Felice ha più di ogni altro storico indagato definendo "anni del consenso" il periodo 1929-1936 nel suo terzo volume della monumentale biografia mussoliniana, apparso nel 1974. Da questo punto di vista Scerbanenco potrebbe essere considerato un defeliciano ante-litteram. Sostiene infatti che "fino a verso il 1930 siamo stati tutti contro. E ci siamo difesi con tutti i mezzi che avevamo a disposizione. Non bisogna dimenticare Matteotti, non bisogna dimenticare gli attentati a Mussolini, quando si dice che gli Italiani sono fascisti". Ma poi il regime riuscì gradualmente, inesorabilmente, con la minaccia, la corruzione e la "frode morale" della propaganda a "limare le unghie" di quanti si opponevano con la non partecipazione, il sabotaggio morale e la protesta silenziosa. Senonché Scerbanenco cita un episodio, avvenuto presumibilmente nel 1938, che potrebbe dare l'idea di un diminuito consenso al fascismo, ovvero della sua fase calante. Racconta di essere stato testimone e protagonista, in uno dei più importanti cinema di Milano, delle sonore risate abbattutesi su un documentario che per la prima volta ritraeva un battaglione che sfilava a "passo romano", detto anche "passo dell'oca", introdotto in Italia da Mussolini nel 1938. "Seguimmo quel documentario in altri cinema, giù giù, fino al più misero cinema rionale. Risero dovunque. Era irresistibile, per noi Latini, quel passo. Avremmo arrischiato il confino o peggio, ma non potevamo fare a meno di ridere".
"Patria mia" è una miniera di aneddoti, situazioni, ritratti che ne rendono godibile la lettura e vengono raccontati con sottile ironia, ad esempio il ricordo di un bombardamento su Milano, quando "un paio di bombe mancarono di poco la tipografia del Popolo d'Italia, allora in via Moscova, e i Milanesi se ne rammaricarono molto". Ma il collante dell'opera è lo sguardo morale che l'autore non fa mai venir meno e gli fa dire, a proposito della corruzione diffusa nel regime: "Il male della tirannia è questo, che gli animi marciscono. Iscritti o non iscritti al partito, tutti si intossicano un poco e sono davvero rari i purissimi. Il livello morale della società si abbassa". Ed ecco abbondare i don Abbondio, ovvero coloro i quali, "paghi del loro libretto di risparmio", non si compromettono ma transigono in nome dei "fatti". Ma il giudizio di Scerbanenco - rileva correttamente Paganini nel suo pregevole saggio introduttivo - è retto da un forte senso morale, non dalla "ragione dei fatti". E ce lo dice con parole intense ed emozionanti: "Il fatto che l'errore trionfi potrà essere politicamente utile a chi lo sostiene, ma non vuol dire, moralmente, che non sia più un errore. Il fascismo e il nazismo possono anche trionfare, perpetuarsi per secoli, cambiare definitivamente il volto del mondo, ma questo non toglie che essi siano una pura barbarie che un uomo civile deve rifiutarsi di riconoscere, sia nel complesso che nei particolari, nel tutto come nelle parti".


 
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