Non rimanere soli

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tommaso berra
view post Posted on 25/1/2010, 17:15




in effetti non ho risposto alla domanda di base di l'ora d'oro: qual è l'esperienza particolare che scerbanenco fa fare al lettore nella baita dei candar. spero sempre in irene e marianna, che sono mi pare di capire delle vere letterate, ma continuerò a cimentarmi appena riavrò il testo tra le mani.
 
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irene48
view post Posted on 25/1/2010, 23:51




Visto che sono stata tirata in ballo, mi provo a rispondere alla provocazione, anche se non ho più il libro sottomano, perché l'ho passato ad un'amica (buona azione scerbanenchiana anche questa?).
Cerco di ricordare la scena nella baita dei Candar, confessandovi che non mi ero soffermata sulla tecnica narrativa adottata dall'autore, tutta presa - questo lo ricordo bene - dall'emozione che la lettura di quelle pagine che precedono l'epilogo della vicenda di Giovanni, mi suscitava.
Le interessanti notazioni di L'ora d'oro mi hanno permesso di fermarmi su quella sequenza e apprezzarla anche dal punto di vista delle scelte narrative, perciò lo ringrazio.
Dunque, l'adozione di una narrazione impersonale, in cui la mediazione del narratore quasi scompare e il lettore, per dirla con Verga, sembra "trovarsi faccia a faccia col fatto nudo e schietto", a me pare che ottenga l'effetto di enfatizzare l'impatto emotivo della scena sul lettore: proprio la focalizzazione esterna, con la conseguente rinuncia all'esplicitazione degli interventi del narratore onnisciente, e l'assenza di spie linguistiche che rivelino i sentimenti e i pensieri dei personaggi, permette al lettore di "vedere" la scena con i suoi occhi, osservare i gesti dei personaggi, immaginarne gli stati d'animo, avvertirne quasi il respiro in una situazione che la presenza dei due soldati stranieri, nonostante la loro cortesia, rende oggettivamente critica. Sicuramente si tratta di un espediente narrativo molto efficace per l'effetto di suspense che crea capace di coinvolgere il lettore.
Non sarei d'accordo con la motivazione data da T.B. che mette in relazione la tecnica narrativa con lo statuto dei personaggi. Mi sembra infatti che, pure in assenza della focalizzazione interna, solo dai gesti dei personaggi, da quella comunicazione silenziosa che è affidata per lo più al linguaggio non verbale, si possano cogliere degli sprazzi di interiorità: nell'offerta del pane (ricordo bene?) da parte del vecchio (?), e nel rifiuto dei soldati nemici (chissà quanto sofferto).
SPOILER (click to view)
A proposito di questi ultimi, vi pare azzardato accostare l'ultima scena, nella grotta dove Giovanni dorme, tra sogni premonitori, la sua ultima notte, ai bellissimi versi della "Canzone di Piero"? A me pare di cogliere nel gesto che chiuderà la giovane esistenza di Giovanni quella paura che finisce per umanizzare e rendere fraterno anche il volto del nemico.


Edited by irene48 - 26/1/2010, 10:55
 
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tommaso berra
view post Posted on 26/1/2010, 12:23




avrà indovinato irene48? sarà soddisfatto il sadico di coira? speriamo. ma non facciamoci illusioni: ci propinerà altri rompicapo quanto prima. lui è fatto così.
indovinato o meno, irene48 ha aperto nuovi orizzonti sulla "seconda notte" e mi ha stuzzicato qualche idea. dalle pagine sulla baita dei candar emerge un sentimento di compassione per tutti, anche per i due giovani soldati nemici. anch'essi -sembra dirci scerbanenco- sono vittime, come i candar, come giovanni. vittime della guerra. vittime di quel feroce regime che li ha mandati ad occupare "la patria". essi si presentano al vecchio candar con atteggiamento da automi, con voce fredda, anche se non aspra. automa, dice scerbanenco, non obbediente cioé alla sua volontà bensì eterodiretto. quando il primo soldato, quello anziano (ma sono entrambi sui vent'anni) rifiuta la polente e la ciotola di latte con la mano "l'espressione del suo volto divenne meno chiusa, un po' cordiale". l'automa comincia ad umanizzarsi. essi sono gentili: mangiano il cibo contenuto nel loro zaino poi puliscono perfino la tavola dalle briciole e chiedono il permesso di fumare. non bivaccano, come è tipico delle truppe d'occupazione. non molestano le donne, anche se "la florida madre" fa un certo effetto al soldato più giovane, che la guarda ripetutamente, ma distoglie lo sguardo. "egli aveva capelli castani, ma gli occhi erano stranamente chiari, e avevano un'espressione innocente". e quando il vecchio candar offre loro del tabacco essi rifiutano (è la regola) ma "il più anziano questa volta sorrise. il volto rasato, sul quale la barba non cresceva ancora completamente, sembrò ancora più giovane quando egli sorrise". e quando si congedano dai candar che offrono di nuovo loro del latte egli rifiuta ancora ma dice "grazie, molte grazie". l'umanizzazione si completa.
scerbanenco ci racconta di loro anche fuori della baita. il giovane dal volto innocente commenta di essere stato bene nella baita dei candar e il suo pensiero, esplicitamente erotico, va alla "giovane rigogliosa madre", al punto da intorpidirlo e di indebolire il suo senso del pericolo durante il rastrellamento.
ha ragione irene48 (vedi spoiler): scerbanenenco umanizza il nemico, ci rende fraterno il suo volto. direi che estende al popolo del paese nemico, qui rappresentato dai suoi soldati, la sua compassione: anch'esso partecipa dell'universale dolore. :)

Edited by tommaso berra - 26/1/2010, 13:34
 
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tommaso berra
view post Posted on 26/1/2010, 14:04




CITAZIONE (irene48 @ 25/1/2010, 23:51)
SPOILER (click to view)
A proposito di questi ultimi, vi pare azzardato accostare l'ultima scena, nella grotta dove Giovanni dorme, tra sogni premonitori, la sua ultima notte, ai bellissimi versi della "Canzone di Piero"? A me pare di cogliere nel gesto che chiuderà la giovane esistenza di Giovanni quella paura che finisce per umanizzare e rendere fraterno anche il volto del nemico.

vorrei rispondere anche a questo spoiler di irene48 con una riflessione anonima, ma bella, sulla canzone-poesia che essa ci ha proposto come "adiacente" alla parte finale di nrs. è anonima e l'ho trovata in internet.
SPOILER (click to view)
[/SPOILER] "Il protagonista è un soldato, Piero, che in una luminosa giornata di primavera, dopo un lunghissimo cammino iniziato nel cuore dell'inverno, varca il confine che divide due nazioni. Mentre riflette sull'inutile ferocia della guerra, vede in fondo alla valle un soldato nemico che certamente prova le sue stesse paure ed è tormentato dai dubbi. Pur consapevole che soltanto uccidendolo potrà salvarsi, Piero appare indeciso sul da farsi. Quell'incertezza, frutto di un atto istintivo di umana solidarietà, gli sarà tuttavia fatale, perché l'avversario, accortosi del pericolo, non esiterà a sparargli" (P. Briganti - W. Spaggiari, Poesia & C., Zanichelli, Bologna 1991, p. 434).
La follia della guerra viene denunciata senza lanciare proclami, ma con quasi rassegnata tristezza. L'unica colpa di Piero è di non aver ucciso un uomo con la divisa di un altro colore, non per vigliaccheria, ma, per un senso di fratellanza; per la consapevolezza di essere (come il nemico) una semplice pedina di un gioco disumano ed assurdo, che schiera umili contro umili in una lotta senza senso.
Nonostante il nome chiaramente italiano del soldato, La guerra di Piero ha una dimensione metastorica e assume un valore universale, emblematico, di denuncia dell'azione più tragica e assurda che l'uomo possa commettere.

In posizione iniziale e finale, quasi a suggellare con una nota di malinconia l'intera ballata, è collocata la sconsolata constatazione del narratore di fronte al cadavere di Piero, il cui ultimo pensiero, di intonazione quasi scherzosa, va alla donna amata, a significare che i sentimenti privati permangono al di là della stupidità collettiva.
Nelle strofe interne si alternano le riflessioni pacifiste del soldato (strofe II, VIII, XII), gli inviti del narratore (strofe IV e VII) e le sequenze propriamente narrative (strofe III, V, VI, IX, X, XI, XIII).

Il livello strettamente denotativo consente una comprensione immediata. Possiamo comunque evidenziare le metafore dell'"inferno" (= guerra) al v. 10 e dell'"anima in spalle" (= angoscia, e fatica) al v. 21; l'iperbole delle "parole / troppo gelate per sciogliersi al sole" dei vv. 51-52; l'anastrofe nell'espressione "dei morti in battaglia ti porti la voce" (v. 15); e varie anafore: "fermati Piero, fermati adesso" (v. 13), "sparagli Piero, sparagli ora" (v. 25), "cadesti a terra senza un lamento / ... / cadesti a terra senza un lamento" (vv. 37-41), "dentro alle mani stringevi il fucile / dentro alla bocca stringevi parole" (vv. 50-52).[SPOILER]
quante magnifiche analogie tra l'autore di questa canzone-poesia e giorgio sul tema della guerra! grazie, irene48.
 
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irene48
view post Posted on 26/1/2010, 14:07




Condivido le belle riflessioni di T.B. che completano con riferimenti al testo puntuali e notazioni molto suggestive il mio breve commento nascosto dietro lo spoiler.
 
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tommaso berra
view post Posted on 29/1/2010, 19:04




ho terminato la lettura di nrs. e poi sono andato a rileggermi la paginetta che scerbanenco ha indirizzato "al lettore". e ho trovato che giorgio ha ragione; tra tutte le definizioni possibili la sua è la più pertinente: nrs è prima di tutto una "ingenua favola". triste, tristissima, ma ingenua nella sua semplicità. e come tutte le favole ha la sua morale, che l'autore ha così sintetizzato: ricordare che quando tutti i valori precipitano in una guerra, resta un solo bene, l'affetto nelle sue varie modalità. ed insiste sull'utilità che può avere il suo romanzo, di far capire al lettore che "nessuna solitudine è bella, e tanto meno buona".
si potrebbe anche dire, visto che siamo alla ricerca di formule, che nrs è un pamphlet contro la solitudine. addirittura giorgio -mi pare di averne già parlato, scusatemi quindi se mi ripeto- bolla come egoismo e superbia la solitudine volontaria, compresa la beata solitudo esaltata dal monachesimo cristiano. verso la fine, ne "la terza notte" (p. 221 della recente edizione garzanti) il romanzo assume direttamente la forma del pamphlet, con quella incredibile perorazione, come fosse un consumato predicatore a pronunciarla, contro la divisione tra le persone che si amano e a favore della loro unità.
non potrei chiudere questa nota senza mettere una parola fine anche sull'altra formula (laterale però): nrs "romanzo di cani". come immaginavo anche ne "la terza notte" c'è un cane in posizione importante. è di nuovo lele, leletta, la fedelissima barbona lele. "un cane non è niente" dice il soldato invasore. ed è un modo, per scerbanenco, di ribadire invece "l'umanità" dell'amico a quattro zampe.
 
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irene48
view post Posted on 29/1/2010, 22:45




Ben detto! Mi pare che la definizione di S. ripresa da T.B. sia la più calzante se diamo all'espressione l'interpretazione che ne fornisce T.B. (sarà una coincidenza - potrà intervenire qui Marianna de Leyva - ma la favola antica aveva come protagoniosti proprio gli animali sotto le cui specie si coglieva la multiforme e sorprendente varietà dell'animo umano).
Una richiesta per L'ora d'oro: ma qual era la risposta al suo indovinello? :(
 
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tommaso berra
view post Posted on 29/1/2010, 23:19




e allora un pensiero affettuoso ai nostri cari cani.
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 30/1/2010, 10:46




Carissimi, scusate il prolungato silenzio; sono stato un po' preso.
Riprendendo il filo del discorso sulla traccia di un articolo uscito da poco...

1) Non rimanere soli è un romanzo autobiografico?
Credo che serva molta prudenza. Scrivendo Non rimanere soli in un momento nodale della sua esistenza, Scerbanenco ha probabilmente dato vita al più “autobiografico” e “storico” dei suoi romanzi, ma l’ha fatto in qualità di romanziere, non da storico o da biografo di sé stesso, vale a dire rielaborando il proprio passato - remoto e prossimo - in piena libertà, ai fini di una creazione artistica autonoma, che come tale va letta. Vi si riconosce certamente un riflesso della realtà storica vissuta dall’Autore all’epoca della stesura, ma non si tratta di un libro di genere memorialistico.

2) Per quanto riguarda la scena nella baita dei Candar:
Ho già accennato allo stile fortemente empatico del narratore di questo romanzo e alla focalizzazione interna ai personaggi. Fa eccezione, per l'appunto, la scena centrale del romanzo.
Ho l'impressione che in questa scena il narratario-lettore (per il resto sempre portato affettuosamente per mano dal narratore che lo guida in modo molto fraterno, senza abbandonarlo mai) faccia l'esperienza del "rimanere soli": infatti non sa più a chi credere, non sa più distinguere apparenza e realtà: i due soldati sono persone affidabili o no? L'offerta di cibo e di tabacco è sincera o nasconde delle insidie? Chi parla dice la verità o mente?... Mi sembra insomma che questa scena rappresenti la percezione del mondo così come non dovrebbe essere secondo il messaggio centrale del romanzo (espresso fin dal titolo).
Il narratario-lettore è, come i personaggi, per così dire e solo per un momento, lasciato solo, confrontato - sia sul piano del narrato che su quello della narrazione - con l’assenza di empatia comunicativa.

3) La luce:
La luce (spesso in relazione con Mutti) ha in questo romanzo (si potrebbero addurre varie citazioni) una duplice valenza simbolica: emotiva, di calore e di gioia, e intellettiva, di senso e di comprensione.

Riporto dall'articolo citato: «È grazie all’universo luminoso di Mutti che Federico e Giovanni capiscono l’importanza della luce: “la luce è come l’acqua, l’aria, il sole, occorre alla vita”. La luce vitale si contrappone convenzionalmente al buio mortale. È significativo che, lontani da Mutti, soli, i due protagonisti maschili non sappiano resistere e sopravvivere alla propria “notte”.
Lei invece, nella conclusione del romanzo, supera la sua “notte”, l’attraversa, e pur nella circostante devastazione dei bombardamenti, non perde completamente la speranza; tocca il fondo del buio più cupo, ma per risalire: “Anche se gli incendi erano lontani dal luogo in cui si trovava, tutta la città era illuminata e ci si vedeva come prima della guerra, quando festeggiavano qualche evento nazionale con orge di luce”.

La simbologia classica patriarcale concepisce convenzionalmente la luce come polo maschile e l’oscurità come polo femminile. In questo romanzo, nonostante le apparenze (sia Mutti che Milla hanno problemi di vista), questa concezione viene in qualche modo capovolta. O meglio: le figure femminili risultano portatrici di luce, anche se quest’ultima viene percepita soprattutto dagli altri.

Oltre a quella della luce (sul piano visivo), un’altra isotopia figurativa e simbolica attraversa le “notti” dei protagonisti di Non rimanere soli (sul piano uditivo): una voce misteriosa».

Ma di questo parleremo ancora, credo.

Rimane poi la questione centrale del romanzo (quella, almeno, che a me pare centrale), enunciata fin dal titolo. Ma mi fermo qui, per ora.

Edited by L'ora d'oro - 30/1/2010, 14:20
 
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tommaso berra
view post Posted on 30/1/2010, 11:33




scerbanenco conduce per mano il lettore in modo fraterno così come l'ora d'oro conduce noi nei meandri di questo straordinario romanzo. grazie, l'ora d'oro per queste note semplici e profonde insieme, che rimandano ad ulteriori approfondimenti.
la baita dei candar: ho riletto quelle pagine e davvero esse trasmettono un senso di grande solitudine in chi legge, come di sospensione. pochissime parole, in forma indiretta, grandi silenzi, piccoli gesti. simbolica al riguardo l'immagine del vecchio candar che fuma la pipa mentre "i suoi occhietti rotondi sembravano guardare dappertutto e in nessun luogo".
 
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tommaso berra
view post Posted on 30/1/2010, 21:34




dedico le mie riflessioni sui grandi cani di "non rimanere soli" a caramella, dolcissima amica che oggi ci ha lasciati. la sua immagine appare come avatar di great-scerbancredi. ciao caramella, ci mancherai. ;)

Edited by tommaso berra - 30/1/2010, 23:47
 
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Grea[t]!
view post Posted on 1/2/2010, 12:43




CITAZIONE (tommaso berra @ 30/1/2010, 21:34)
dedico le mie riflessioni sui grandi cani di "non rimanere soli" a caramella, dolcissima amica che oggi ci ha lasciati. la sua immagine appare come avatar di great-scerbancredi. ciao caramella, ci mancherai. ;)

E' da qualche settimana che avevo voglia di intervenire in questa discussione, ma il destino che tutto conosce ha fatto sì che scrivessi solo adesso il mio primo intervento su Non rimanere soli. Avevo letto l'intervento di tommaso sui cani scerbanenchiani e proprio su questo volevo mirare queste mie poche parole.
Scerbanenco ama gli animali e, in modo particolare, i cani. Proprio alla fine del romanzo, nella cronologia, Nunzia Monanni ci riferisce di questa forte sensibilità di Giorgio: uno zio di Scerbanenco è cacciatore e ispira un racconto profondissimo di Voce di Adrian che la Monanni riporta interamente.
La scena è quella di una piccola nipotina - una donna scerbanenchiana in potenza - che guarda con fare materno e preoccupato l'unica allodola del cestino che ancora respira. Lo sguardo della piccola si rivolge allo zio, speranzoso che egli l’aiuterà a salvare quella piccola vita. Avviene il contrario: lo zio con indifferenza pone fine al volatile, perdendo per sempre la fiducia dell’altra piccola vita, quella della sua nipotina.

“La bambina fuggì via inorridita, sconvolta, e da quel giorno fu come se avessero schiacciato lei, con un colpo secco, preciso, del pollice e dell’indice, dato da un gigante invisibile, né cattivo, né buono, ma semplicemente indifferente. Fino ad allora la vita era per la bambina una cosa buona e delicata, alla sera le carezze della mamma la mandavan nel Paradiso dei Sogni, e al mattino le finestre si aprivano al sole. Prima.”

I cani sono poi particolarmente amati da Scerbanenco. La loro presenza o la loro assenza sulla scena sono più che semplici elementi narrativi o espedienti di descrizione: i cani incarnano i momenti dell’anima, i sentimenti che ci sorreggono nella vita, qualunque sia il momento, positivo o negativo.
Ripenso alla coppia di alani in Rossa o al piccolo cane di Milla in La ragazza dell’addio.
Ripenso al mio amato cane, che mi ha lasciato sabato dopo quindici anni passati vicini. Ripenso a quanto spessissimo mi capiva più delle persone, ripenso a quanto mi ha fatto crescere e a come sono diventato oggi anche grazie a lei. Ripenso al fatto che non ci sia più e ancora non me ne rendo conto, perché se fuori grandina mi pare di sentirla ancora ticchettare sul parquet di casa, intenta ad avvicinarsi chissà dove.
Un pezzo del mio cuore non c’è più. Ripenso infine al significato di Non rimanere soli, a come la morte può essere sconfitta se si è con i propri affetti. Mai rimanere soli! Sembrerebbe dirci Giorgio, perché la lontananza dalle persone che ci amano è peggio della morte.
Aveva ragione Giorgio, anche se alla fine però si rimane soli comunque. E da due giorni anche io mi sento un po’ più solo.
 
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Grea[t]!
view post Posted on 10/2/2010, 12:59




Mi preme segnalare poche righe verso la fine della Prima notte. Federico Navel ricorda il campo di concentramento e i suoi pensieri scorrono.

"Poi una sera Federico Navel si accorse che lo avevano portato in un campo di concentramento. Si accorse che stava disteso su un morbido strato di paglia, avvolto in due coperte di lana. La luna entrava da due grandi finestroni e illuminava la cameretta. Accanto a lui dormivano altri compagni."

Due sono i compagni di Federico a cui Scerbanenco dedica una breve descrizione: il primo è Braustch, uno a cui "piaceva essere sempre a posto ed elegante. Aveva passato il confine con una grossa valigia nella quale aveva tutto, il pigiama, le pantofole, l'acqua di lavanda e un servizio per le unghie. Aveva l'abito sempre stirato, s'irritava moltissimo quando vi si attaccava qualche filo di paglia, i capelli erano lisciati con la brillantina, le scarpe lucide; la sera prima di sitendersi sulla lettiera si dedicava ad una lunga toilette, come si trovasse al Metrapole o all'hòtel de la Ville."

In opposizione a Braustch, alla sua cura del corpo, alla sua maniacalità, c'è...

"Jelding invece si trascurava, si buttava sulla paglia senza neppure togliersi la giacca, si radeva ogni quattro o cinque giorni, masticava continuamente, o una mela, o un pezzo di pane, e non parlava."

Vi ricorda qualcuno questo nome? Come non potrebbe.
Scerbanenco ricorda qui Arthur Jelling, anche se indirettamente e solo per poche righe. Non un bell'omaggio verebbe da dire, visto che Jelding e Jelling hanno poco di simile. L'uno mangia sempre, l'altro di rado e solo quando le indagini lo consentono; Jelding si trascura, Arthur invece è sempre impeccabile, anche grazie alla signora Jelling, silenziosa ed invisibile. Forse l'unica cosa parzialmente simile è la parlantina: manca ad entrambi e denota dunque l'estrema riservatezza - timidezza dei due personaggi.

Jelding - Jelling, solo un caso? No di certo.
Volevo chiedere a L'ora d'oro, grande esperto di Non rimanere soli, se può aggiungere qualcosa in merito a questa citazione di Scerbanenco.
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 10/2/2010, 16:38




Cari Amici,

domani si terrà a Coira un "Caffè letterario" su Non rimanere soli. Certamente parlerò anche del nostro forum e inviterò i presenti a visitarlo per, magari, partecipare alla discussione.

Sulla sollecitazione di Scerbancredi:
Intanto bisogna correggere Scerbanenco: il campo di Federico (come quelli frequentati dall'autore) non è un "campo di concentramento", bensì un "campo profughi" o un "campo per rifugiati" (in Svizzera non c'erano "campi di concentramento").

Anche a me il nome del secondo compagno di Federico nel campo aveva fatto sobbalzare sulla sedia: Jelding (simile a Jelling). Ma poi avevo lasciato perdere la suggestione, perché in effetti, a parte il nome, non c'erano somiglianze.
Si potrebbe anche vedere come si chiamavano i compagni di campo di Scerbanenco, ma sarebbe una ricerca difficile.

Ora mi chiedo: non potrebbe essere che i due personaggi rappresentino due comportamenti estremi rilevabili tra gli ospiti del campo (e tra i quali era oscillato forse anche lo stesso Scerbanenco, prima e durante l'esperienza desolante del campo profughi)? Ma evidentemente è solo una speculazione senza punti di appoggio, se non la nota eleganza dell'autore prima e dopo l'esilio.

D'altra parte riporto questo brano dal coevo Mestiere di uomo di Scerbanenco, intitolato Non giudicare (è l'ultimo capitolo):

«Chi è debole? Chi è forte? Quando conosciamo qualche nuova persona, presto nella nostra mente si forma da sé, una specie di giudizio: quella persona è forte. Quella persona è debole. Quella persona è generosa, oppure è egoista.
E quando abbiamo detto di uno che è un debole, o un generoso, dopo, per tutta la vita, quell’uno è sempre debole o generoso, per noi. Passano gli anni, ma il nostro giudizio non cambia, vediamo sempre quella persona nella cornice della debolezza, o della generosità.
Eppure, il nostro giudizio su qualcuno, si forma nei primi momenti di conoscenza ed è spesso basato su una fuggevole impressione, o su una serie di impressioni fortuite, casuali. Ecco: vediamo un uomo in un impotente ufficio, dietro una lucida scrivania, con ossequiosi visitatori intorno. E allora per noi, quell’uomo è importante, è forte, è potente. Ma se lo vediamo presso una chiesa, vecchio, stendere la mano chiedendo l’elemosina, ecco, diciamo che è un debole, un uomo finito, che merita soltanto la nostra pietà.
Ma è lo stesso uomo. E se il nostro giudizio era vero allora, quando era potente, ed era vero poi, quando elemosinava, pure erano tutti e due relativamente veri. Perché non esistono forti o deboli, cattivi o buoni, avari o altruisti, non esiste nulla di tutte queste classificazioni che ingombrano la nostra mente, ma esistono solo uomini, solo anime, che ora tendono verso la generosità ora verso l’eroismo, ora sono forti, ora sono piegate dalla disgrazia.
Noi non siamo merci in scatola con una etichetta sopra: buono – cattivo. Siamo un piccolo mondo in continuo fermento, fluido, e non siamo qui per giudicarci, perché ogni nostro giudizio è in fondo vano, ma per volerci bene. Dividerci in operai o in ricchi signori, in intelligenti o stupidi, significa abbassarci, degradarci al rango delle cose che si dividono, come in animali da cortili che si dividono in specie pregiata e in specie comune. L’uomo è una sola specie: la specie umana. Una terribile specie, capace del peggiore male, ma anche del più generoso bene. Questo è il solo giudizio che possiamo dare all’uomo».

Che sia una chiave di lettura? Che Brautsch e Jelding siano due possibili declinazione contrastanti della stessa personalità, che ora tende all'eleganza e alla ricercatezza e ora alla trascuratezza? Chissà!

PS: se aveste qualche sollecitazione per il "Caffè letterario" di domani sera su Non rimanere soli, sarà benvenuta!
 
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tommaso berra
view post Posted on 10/2/2010, 17:03




Difficili domande. Jelding? Beh, certo, si pensa a Jelling, ma non c'è alcuna somiglianza. Ricordo che tutti i cognomi dei personaggi di Nrs terminano in consonante. Chissà, forse la fantasia di Giorgio si stava esaurendo ed è ricorso a Jelling sostituendo una "d" a una "l". Però avrebbe potuto chiamare Jelding l'elegantone e Brautsch il debosciato. E invece fa il contrario. Concordo comunque con L'ora d'oro: i due sono personaggi "estremi", emblematici della vita quotidiana in un campo profughi. E riflettono probabilmente due stati d'animo che hanno entrambi appartenuto a Scerbanenco in quella situazione: la cura maniacale della propria persona e l'assoluta trascuratezza, entrambi i comportamenti rivelatori, direi, di un forte stato depressivo. Parola di Tommaso Berra. E ho detto tutto.
 
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32 replies since 8/1/2010, 11:46   976 views
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