"STORIA DEL GIALLO ITALIANO". SCERBANENCO VISTO DA RAMBELLI, Duca cinico quasi immorale? Arthur pavido? Mah...!

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tommaso berra
view post Posted on 13/2/2010, 19:33 by: tommaso berra




“Scerbanenco e la società industriale” è il titolo del capitolo dedicato da Loris Rambelli al padre del noir italiano nella sua “Storia del giallo italiano” (Garzanti, 1979) la prima guida critica e bibliografica alla nostra letteratura poliziesca, come recita il sottotitolo. Un’opera importante, pioneristica, corredata da una robusta “guida agli autori” in cui sono riportate le principali opere del genere apparse in Italia, da Il Sette bello di Alessandro Varaldo (1931) a Passato, presente e chissà di Loriano Macchiavelli (1978).
Tanti, tantissimi titoli, un migliaio, ma non tutti i titoli del giallo-noir italiano. E non mi riferisco al fatto che in mezzo secolo la produzione italiana di gialli e noir ha certamente superato il migliaio di titoli, perché è giusto che l’autore abbia fatto la sua selezione e indicato gli scrittori più significativi. Mi riferisco invece all’assenza, ma per la verità non è solo il caso di questa storia del poliziesco, di alcuni grandi romanzi che appartengono di sicuro al genere giallo-noir. Come se anche Rambelli fosse succube dello stereotipo “letteratura poliziesca uguale letteratura minore”. Per cui non osa parlare ad esempio di un Gadda e del suo Pasticciaccio, né di uno Sciascia e del suo Il giorno della civetta (e perché no di Todo modo). Egli cioè segue, forse senza accorgersene, il diffuso pregiudizio per cui se uno scrittore è “di genere” può anche essere bravo e gradevole a leggersi, ma non raggiungerà mai le vette della letteratura. Se le ha però raggiunte, non ha importanza quando come e perché, la sua produzione viene sradicata come per incanto dal suo humus naturale e proiettata in un indistinto empireo che è la letteratura con la elle maiuscola e senza aggettivi. Bene avrebbe fatto Rambelli, invece, a parlarci anche di Gadda, di Sciascia e di qualche altro scrittore italiano che si è cimentato con il giallo-noir (mi viene in mente, tanto per dirne uno il Chiara de La stanza del vescovo e ancor più de I giovedì della signora Giulia) anche al limite seguendo l’impostazione tradizionale, abbastanza diffusa ma discutibile, secondo cui certi scrittori “sforano” però il genere e quindi in un certo senso ne fuoriescono, ma io direi invece lo nobilitano. Discorso che si potrebbe fare tranquillamente per Scerbanenco. O per Simenon nella letteratura francofona.
Né l’autore ci parla (ma anche qui non è il solo in questo genere di opere) dello stile, personalissimo e innovativo di Scerbanenco, scrittore di grande inventiva linguistica. Forgiatore di parole, attitudine che egli aveva teorizzato fin dagli anni dell’esilio svizzero, (v. C. Scerbanenco, “Quaderni di guerra”, saggio introduttivo a Annalisa e il passaggio a livello) con arditi e forse un po’ provocatori paragoni critici -di cui abbiamo parlato nella discussione “Coincidenze” in Bacheca- tra Manzoni e Tommaseo da una parte, Dante e Shakespeare dall’altra, i primi “servitori” della lingua, e quindi “non artisti”, i secondi “padroni” della lingua in quanto “creatori” di essa e quindi “artisti”.
Fatta questa premessa critica di carattere generale, veniamo al nostro Scerbanenco visto da Rambelli. Sono pagine complesse, a tratti confuse e discutibili, giocate sul continuo raffronto, non si capisce quanto pertinente, tra Arthur Jelling e Duca Lamberti e sull’importanza del tessuto urbano in Scerbanenco, tanto la Boston di Jelling, quanto la Milano di Duca. Tema, quest’ultimo, di notevole interesse, che Rambelli pone in evidenza in altri capitoli, ma anche in questo caso in modo non del tutto convincente, avvalendosi della “complicità” dello Sciascia critico: quando ad esempio sostiene che i Maigret ambientati nella sonnacchiosa provincia francese sarebbero inferiori ai Maigret parigini sul piano dell’intrigo e del mistero. Che a mio modesto avviso è giudizio poco meditato.
E’ comunque sacrosanto che Scerbanenco sia considerato uno scrittore “urbano” per eccellenza. E si potrebbe aggiungere che mentre la Boston dei suoi Jelling è sì originale ma tipicamente “letteraria”, non avendo mai Scerbanenco vissuto in America a differenza di uno Spagnol che quella realtà conosceva da vicino (v. M. Pistelli, Un secolo in giallo, Donzelli 2006), la Milano di Duca Lamberti è palpitante di vita e attraverso la metropoli lombarda Scerbanenco riesce a darci un magistrale affresco della nuova Italia del benessere, o meglio della convulsa transizione italiana al suo squilibrato benessere. Ha ragione Rambelli quando nota che la svolta di Scerbanenco è resa possibile dalla trasformazione della società italiana che “abbandonava la sua struttura semiagricola per ispirarsi decisamente a modelli industriali. E anche la delinquenza, contraccolpo di questa trasformazione accelerata, approdava a livelli di paese industrializzato… I tempi erano dunque maturi per il ‘romanzo nero’ in cui l’assassino non è il privato borghese ma il killer, cioè un professionista del delitto”.
Anche su questo Scerbanenco è straordinariamente chiaro e efficace. "C'è qualcuno - fa dire a Duca Lamberti in un passo di Traditori di tutti ormai famoso per la sua valenza emblematica - che non ha ancora capito che Milano è una grande città, non hanno ancora capito il cambio di dimensioni, qualcuno continua a parlare di Milano, come se finisse a Porta Venezia o come se la gente non facesse altro che mangiare panettoni o pan meino. Se uno dice Marsiglia, Chicago, Parigi, quelle sì che sono metropoli, con tanti delinquenti dentro, ma Milano no, a qualche stupido non dà la sensazione della grande città, cercano ancora quello che chiamano il colore locale, la brasera, la pesa e magari il gamba de legn. Si dimenticano che una città vicina ai due milioni di abitanti ha un tono internazionale, non locale, in una città grande come Milano, arrivano sporcaccioni da tutte le parti del mondo, e pazzi, e alcolizzati, drogati, o semplicemente disperati in cerca di soldi che si fanno affittare una rivoltella, rubano una macchina e saltano sul bancone di una banca gridando: Stendetevi tutti per terra, come hanno sentito che si deve fare".
Correttamente Rambelli coglie la svolta scerbanenchiana della “Milano nera” collocando il nostro autore nel solco di quella “scuola realistica” che in America era sorta trent’anni prima con Hammett e Chandler, i padri dell’hard-boiled. Come Sam Spade e Philip Marlowe, Duca è un duro. Spietato con il crimine, ma aggiungerei capace di comprenderne le cause. Non cinico, però, come invece sostiene Rambelli. Cinico di fronte al crimine sì, cinico in assoluto no. L’autore del resto si contraddice quando dopo aver affibbiato a Duca Lamberti questa etichetta, riporta frasi di Scerbanenco che lo smentiscono: “Come medico, aveva troppa pietà dei malati, voleva proprio curarli, voleva proprio guarirli, voleva proprio aiutarli… uno così non deve fare il medico”. (Traditori di tutti). E lo smentiscono le storie di Carolino Marassi e Marisella Domenici ne I ragazzi del massacro, il tormento di Duca di fronte alle notizie sulla possibile fine della pur crudele prostituta.
Duro, emarginato, non fosse altro in quanto medico radiato dall’ordine per eutanasia, frustrato, poco fiducioso dei rapporti umani, sono tutte caratteristiche che Rambelli coglie assai bene in Duca. Ma cinico, con quel che da questo presunto cinismo egli fa seguire, assolutamente no. Credo perciò che il ritratto che dell’investigatore scerbanencheniano fa il primo storico del giallo italiano, dopo aver introdotto come figure di paragone il Mike Hammer di Spillane o certi personaggi di Sergio Donati, sia fuori registro: “Di fronte a questo cinismo mal controllato, ingenuo, candido addirittura, quello di Duca Lamberti è di tipo glaciale, compatto, sistematico, intransigente. Il personaggio che vorrebbe essere di dolente umanità, rischia di diventare disumano, cibernetico: macchina di controllo della collettività umana, fatta, a sua volta, di macchine. Duca Lamberti è l’automa del ragionamento sillogistico e della obiettività scientifica, come Livia Ussaro, la sua donna, è l’automa degli imperativi morali”. Così scrive Rambelli e peggiora il quadro quando addirittura, ricordando Jelling, il quale ha scoperto che gli uomini davvero pericolosi sono gli amareggiati, conclude che Duca “essendo un amareggiato, è un uomo pericoloso. Il pericolo sta nel suo moralismo tutto di testa, che conserva le forme, ma non la sostanza, del comportamento etico”. Che onestamente mi sembra un giudizio spropositato, sol che si pensi all’idea, come ha scritto Nunzia Monanni, che Duca debba essere considerato l’alter ego di Scerbanenco, del mite Scerbanenco. Un giudizio che semmai potrebbe essere svolto invertendo i termini: Duca conserva la sostanza anche se non sempre le forme del comportamento etico.
Più centrato invece, da parte di Rambelli, il ritratto di Jelling. Ma anche in questo caso vorrei dissentire su un punto: timido, remissivo, di una gentilezza quasi femminea, mite, eccetera eccetera, ma pavido no. Al momento opportuno Arthur sa prendere decisioni anche difficili e non si tira indietro di fronte a possibili pericoli. Scerbanenco ce lo dice a chiare lettere e non una sola volta. Ecco un esempio da L’antro dei filosofi, allorché il timido archivista della polizia di Boston “sequestra” un taxi. “Quando occorreva Jelling era anche un uomo autoritario. E adesso occorreva. Lesile Steve sul luogo del delitto? ...Lesile Steve ubriaco sulle rive del Deviles era un elemento troppo importante: bisognava pescarlo laggiù, prima che se ne andasse. Bisognava far presto. Perciò mostrò il distintivo di Polizia che portava dietro il risvolto della giacca e gridò: ‘Prendete tutte le multe che volete. Polizia. Ma non perdete un minuto di tempo’”. Che durante la folle corsa verso il fiume la sua eccitazione si trasformi in “un po’ di paura”, badate un po’, è tutto un altro discorso. “Ad ogni momento pareva che la macchina stesse per investire qualcuno o per sfracellarsi contro qualcosa”. Anche Niki Lauda sarebbe sbiancato.

Edited by tommaso berra - 14/2/2010, 23:38
 
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