| Mamma mia, quanta carne al fuoco! Mi ero perso questi vostri interventi; grazie a Tommaso per avermeli indicati! Tocco solo tre argomenti, tra i tanti possibili.
a) Federico Navel è Scerbanenco? Suggerisco molta prudenza. Attenzione alle letture autobiografiche! Possono essere fuorvianti. Ma attenzione anche alle letture referenziali (dov'è ambientato il romanzo? chi è questo personaggio nella vita reale? ecc.). Questa lettura, benché sollecitata da una legittima curiosità, porta con sé il rischio di travisare un testo letterario. Certo ci sono degli influssi, delle ispirazioni, ma bisogna stare attenti a non forzare la mano. Rinvio in proposito al saggio appena uscito con gli atti di un convegno tenutosi in Francia nel marzo del 2008:
Andrea Paganini, "Non rimanere soli" di Giorgio Scerbanenco, in Il romanzo poliziesco, la storia, la memoria, a c. di Claudio Milanesi, Astraea, Bologna 2009, pp. 103-133.
b) Qual era il manoscritto portato con sé da Scerbanenco durante la fuga in Svizzera? Riporto un breve stralcio dal saggio appena citato:
«Nel racconto autobiografico della sua fuga in Svizzera, Scerbanenco narra di aver portato con sé il manoscritto di un romanzo[1]:
Un romanzo d'amore. Avevo continuato a scriverlo fino a due giorni prima. C'era la guerra, i bombardamenti, i tedeschi che arrivavano dilagando da per tutto come le cimici sulla brandina in cui dormivo anni prima all'albergo popolare, ma io scrivevo romanzi d'amore, donne dolcissime, uomini forti e leali, un po' di cattiveria, ma infine sempre tenerezza, tanta tenerezza.
Ora, ammesso che effettivamente il romanzo in questione - iniziato ma non ancora portato a termine: «un centinaio di cartelle» - abbia fatto con l'esule il viaggio d'espatrio, di quale romanzo si tratta? Vista la descrizione fornitane - a distanza di vent'anni, però! - verrebbe da pensare proprio a Non rimanere soli. (Fra l'altro è con queste parole, «un romanzo di donne dolcissime, uomini forti e leali, un po' di cattiveria, ma infine tanta tenerezza», che viene presentato Non rimanere soli sul retro di copertina dell'edizione più recente).
Senonché, a questo punto, dagli scritti di Scerbanenco fanno capolino due manifeste incongruenze, difficilmente spiegabili:
1) se è vero che la vicenda narrata in Non rimanere soli, e in particolare la Prima notte, è stata modellata sulla traccia dell'esperienza biografica dell'Autore in esilio, essa non può risalire a un periodo antecedente la sua stessa fuga in Svizzera;
2) sempre ammesso che effettivamente la vicenda di Federico Navel (esule ospitato dalle sorelle Mager) sia stata scritta sul solco dell'esperienza dell'Autore (esule ospitato dalla famiglia Bannwart a Soletta), il 10 dicembre del 1943 Scerbanenco non poteva aver finito il suo romanzo – e, anzi, già averlo proposto a un editore di Zurigo –, come sostiene[2], perché sappiamo che soltanto a partire dal 20 dicembre di quell'anno egli è stato ospite della famiglia Bannwart.
Si può risolvere la seconda incongruenza, ritenendo che il romanzo Non rimanere soli che Scerbanenco in data 10 dicembre 1943 dice di aver finito e consegnato all'editore Albert Müller sia stato in realtà una prima versione, poi riveduta e portata a termine nella forma definitiva nei due o tre mesi successivi, integrandovi le vicende di primo piano. Analogamente – ci sembra – va risolta la prima incongruenza: è possibile che il romanzo inizialmente concepito in Italia abbia contemplato soltanto i brani di flashback (il passato dei tre protagonisti). Ciò spiegherebbe come Non rimanere soli sia potuto essere terminato in tempi così brevi, anche nelle circostanze precarie di un campo profughi o comunque in terra d'asilo.
Oppure il romanzo che Scerbanenco portava nella borsa era un altro, magari successivamente andato smarrito.
Oppure ancora - e anche questa non ci sembra un'ipotesi da scartare a priori - il fuggiasco Scerbanenco, in quel rocambolesco viaggio del 20 e del 21 settembre 1943, non portava con sé nessun romanzo. Non rimanere soli sarebbe stato scritto sull'onda emotiva dell'esilio in pochi mesi. E unicamente per raggiungere un certo risultato di poetica nel racconto della fuga, scritto negli anni Sessanta, vi avrebbe inserito l'episodio del manoscritto tratteggiato in modo tale che facesse pensare a un romanzo nato effettivamente più o meno in quel periodo».
[1] Il racconto si trova nella settima e ultima parte di Io, Vladimir Scerbanenco ed è stato in seguito riproposto dall’Autore come brano d’apertura di Viaggio in una vita, rispettivamente in appendice a Venere Privata, Milano, Garzanti, 2002, pp. 247-251, e in appendice a Il falcone e altri racconti inediti, Milano, Frassinelli, 1993, pp. 140-143.
[2] Cfr. la lettera di Scerbanenco all'Ufficio cantonale per il lavoro di Soletta del 10 dicembre 1943 (ora in Lettere sul confine), nella quale egli chiede l'autorizzazione a pubblicare il romanzo.
c) Annalisa (sulla cui genesi ci sarebbe molto da portare alla luce e che comunque mi lascia un po' perplesso) e Dürrenmatt È vero, il romanzo La promessa è ambientato in gran parte a Coira e dintorni. (Una curiosità, tra parentesi: esistono due trasposizioni cinematografiche; io preferisco la prima; quando la vidi, anni fa, rimasi colpito e dovetti sobbalzare sulla sedia, perché... il criminale, nel film, abitava a casa mia!!!) L'ambientazione di Annalisa: attenzione: Magliaro non esiste! Si tratta di Magliaso, in Ticino, dove Scerbanenco trascorse un periodo terribile della sua esistenza. Per il resto mi trovo abbastanza d'accordo con le riflessioni di Tommaso. Ci sarebbe ancora molto da dire, ma per ora mi limito a segnalarvi che nel libro fresco di stampa L'ora d'oro di Felice Menghini (L'ora d'oro, Poschiavo 2009) si trovano ben tre saggi su Scerbanenco: uno di Gian Paolo Giudicetti, uno di Jane Dunnett e uno di Paolo Lagazzi. In quest'ultimo, intitolato Scerbanenco: la guerra nel cuore, c'è una riflessione molto interessante su varie opere letterarie del periodo svizzero, e anche su Annalisa e il passaggio a livello. Grazie e... parliamone ancora! Ciao e buon anno a tutti!
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