| GLI ANNI DEI BUCHI NERI. IL MIO SCERBANENCO SEGRETO
La vedova racconta: la prima moglie, i nazisti e la fuga in Svizzera.
TRE notti di ricordi. Tre vite spezzate. Un amore e un’amicizia cancellati dalla guerra. Poi i partigiani, i bombardamenti, l’invasore nazista. Non rimanere soli è uno dei romanzi più anomali e imprevedibili di Giorgio Scerbanenco. Uscì subito nel ‘45 e ora viene riproposto dal Melangolo (pp. 298, L. 26.000). Insieme con il folgorante e crudele Lupa in convento (La Vita Felice, pp. 59, L. 10.000, a cura di Oreste del Buono) apre un piccolo squarcio sul silenzio che lo scrittore italiano di Kiev usò per blindare la sua vita dal ‘43 al ‘45. Nella riscoperta di Scerbanenco c’è anche da segnalare uno sceneggiato in 7 puntate per la Rai, liberamente ispirato al personaggio di Duca Lamberti, interpretato da Gene Gnocchi. “Dopo l'8 settembre Giorgio fuggì in Svizzera, era assediato dall’orrore, spaventato dalle distruzioni. La sua casa vicino al Duomo venne rasa da un bombardamento. Da bambino aveva visto troppo odio e sperimentato sulla pelle troppa miseria per resistere ancora”, dice Nunzia Monanni, seconda, amatissima moglie di Scerbanenco, e figlia dell’editore. Sulla parete, un disegno che Carrà regalò al padre, “all'amico Giuseppe”. Quando “la Patria fu invasa dal nemico tedesco”, Scerbanenco fuggì in Svizzera. La prima moglie, Teresa Bandini, dalla quale si stava separando, gli procurò un alloggio presso due sorelle amiche. Varcò il confine per le montagne. Nello zaino cento cartelle di un romanzo d'amore che stava scrivendo. Addosso un elegante completo color cammello inzuppato di pioggia e fango. “Dei due anni svizzeri non volle più discutere - dice la vedova Scerbanenco -. Era fatto così non parlava mai del passato, guardava solo al futuro. Ignoro praticamente tutto di quel buco nero”. E allo zelo iconoclasta nei confronti del passato, sono scampate poche cose. I mobili “old America”, gli amati orologi (ne aveva indosso sempre tre) e le pendole, le macchine fotografiche. I romanzi (oltre cento), i ricordi di antichi amori, gli appunti, gli scritti che consegnava senza correzioni alla tipografia, sono andati quasi tutti perduti. Ecco perché la ristampa di vecchie opere è quasi come la ristampa di un inedito. “In Svizzera prima fu ospitato in un campo per profughi stranieri, e fu abbastanza grama - dice Nunzia Monanni -. Poi ritornò lentamente alla vita che conduceva a Milano, alloggiato tra Coira e Davos. Era un brillante giornalista e voleva soltanto scrivere. Collaborò ai fogli che altri esuli italiani stampavano. S’incontrava con Montanelli, Vergani, con l’agente letterario Linder. Scrisse cinque polizieschi ambientati a Boston che dopo la guerra uscirono nei gialli Mondadori e che Frassinelli sta per ripubblicare”. Una volta lo andò a trovare anche l’editore Luigi Barzini jr. Lo sappiamo dal racconto autobiografico Viaggio in una vita (contenuto ne Il falcone e altri racconti, Frassinelli). Di quel giorno ricorda una farfalla posata sui binari del treno. Una scheggia surreale nel mondo dilaniato dalla guerra. “Dalla Svizzera si portò dietro un grande odio per la montagna - ricorda ancora Nunzia Monanni Scerbanenco-. Da allora andammo solo al mare. Comprammo una casa a Lignano Sabbiadoro”. “I romanzi della guerra sono cupi, pessimisti sull’animo umano - dice la figlia Cecilia che sta scrivendo una biografia del padre -. Rivelano un aspetto segreto di Scerbanenco, totalmente rimosso negli Anni 50”. Lo scrittore era antifascista, ma non militante. Odiava la “bestialità nazista” ma poi nei racconti sapeva assolvere i singoli soldati tedeschi, capaci anche di gentilezza, attenzioni, nonostante le aspre regole del combattere. In un’agenda del ‘46, l’unica scampata alla frenesia d’oblio dello scrittore, Scerbanenco annota giudizi durissimi sulla Germania hitleriana. Ma condanna, altrettanto duramente, l’Unione Sovietica. “Aveva visto da vicino le due facce del male, il totalitarismo rosso e quello nero - dice Cinzia Monanni -. Sperava che anche Stalin, prima o poi, crollasse”. Talvolta, nelle pagine dei romanzi, affiorano schegge della Russia di Pietro il Grande. Ufficiali zaristi belli d’onore e di sventura. Ma è una nostalgia immaginaria, perché Scerbanenco nacque a Kiev nel 1909, e vi restò pochi mesi. “Suo padre era un professore di greco e latino all'università di Kiev. Un raffinato intellettuale che Gorkij cita in una lettera. Quando i rossi presero la città lo fucilarono. Sua madre andò a cercarlo nel ‘21, col piccolo Giorgio, e rischiarono di essere bloccati dalla feroce burocrazia sovietica. Da allora Scerbanenco odiò il comunismo. La nonna era una nobile, e attraverso i racconti di famiglia probabilmente sviluppò un rimpianto per la Russia zarista”. Non rimanere soli uscì nell’Italia della liberazione. Parla di partigiani, sfiora la ferocia nazifascista. Ma nella letteratura resistenziale d’allora, dominata dallo stile di Calvino, Fenoglio, Pavese, si allontana singolarmente da ogni intento “politico” o “storico”. Parla di cuori, di amore, di solitudine. Miscela la guerra con i famigliari toni del rosa. Vuole essere un’ “ingenua favola” che spia gli individui dietro la Storia per spiegare che la solitudine è dolore, disamore, perfino superbia, che “la misantropia è immorale, su di essa germogliano le guerre”. Molti sono gli elementi autobiografici. L’amore per i cani (ne aveva cinque nella casa vicino al Duomo). La passione per il cinema, unica finestra aperta sul mondo nell’Italia fascista, dai balli di Ginger Rogers alle paurose scorrerie del dottor Mabuse. La dolorosa morte della madre. C’è il canottaggio, osservato, praticato quando la Mondadori sfollò sul Lago Maggiore. C’è un amore vero, una donna che poi venne uccisa barbaramente in Medio Oriente. C’è l'accenno, attraverso il dottor Marr, bello, cialtrone e seduttore, alla diffidenza che Scerbanenco provò per tutta la vita nei confronti dei medici (“Mio marito era geloso di loro, non voleva che mi visitassero a lungo, si insospettiva, stava male. Ma non ho mai saputo cosa ci fosse alla radice di questo disagio”). Attraverso uno dei protagonisti del romanzo riaffiora anche la sofferta, povera giovinezza di Scerbanenco. “Il burro, il caffé erano per lui aromi quasi proibiti - ricorda la vedova -. Fu un autodidatta. Nel tempo libero tra i vari mestieri andava alla biblioteca del Castello Sforzesco a prendere libri in prestito che poi leggeva fino all’una di notte nelle osterie. Kant, Hegel, Hume, alternati col lavoro di contabile. Libri di storia, affreschi di guerra, trattati di astronomia e matematica. Giorgio leggeva raramente i romanzi, anche durante la maturità. L’unica eccezione era Faulkner. Quando uscì Gli indifferenti, e si accese la disputa sul romanzo tra formalisti e contenutisti, lui tifò per Moravia. La letteratura doveva raccontare fatti, storie, destini. Per questo amava pubblicare le lettere delle lettrici sulle riviste che dirigeva. E' sempre stato dalla parte degli esseri umani. Un amore che si portava dietro da quando fece il barelliere per la Croce rossa. Vide gente morirgli tra le braccia, fu catapultato in drammi famigliari. Quelle storie furono il fertilizzante dei suoi romanzi. Sapeva sulla sua pelle che la miseria avvilisce, rimpicciolisce, voleva esorcizzarla con la scrittura”.
BRUNO VENTAVOLI
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