A scuola da Scerbanenco, Liberal, 10 ottobre 2009, Pier Mario Fasanotti

« Older   Newer »
  Share  
orrest
view post Posted on 27/11/2009, 08:32




A scuola da Scerbanenco


Mettiamo che uno scriva tanti libri con un linguaggio semplice e senza alcun contorcimento letterario, che esca dal genere poliziesco per entrare in quello noir e viceversa, con una disinvoltura da lasciare allibiti, che usi tanti pseudonimi, magari per storie strappalacrime, che tenga una rubrica in un periodico femminile. Ecco, mettiamo tutto questo a grandi linee.
Le conseguenze, almeno in Italia, sono evidenti e collaudate: lo scrittore, anche se vende tante copie (o forse anche per questo) viene catalogato nella serie B della narrativa, la critica paludata lo snobba, non vince alcun premio letterario. Poi, decenni dopo, lo riscoprono e critici dalla penna raffinata e snob dicono che sì, effettivamente lui era il padre del noir italiano, che la sua semplicità stilistica non era sciatteria bensì un dono raro, che sapeva nei suoi scritti andare dritto nell'anima dell'uomo. E più ancora: era non tanto un ser- batoio formidabile di storie e personaggi, ma «un collezionista di persone» visto che ne afferrava così bene le paure, i disagi, i pudori, le sofferenze, le speranze e le piccole gioie. Lui, infaticabilmente e con una eccezionale gioia nello stare davanti a una Olivetti 22, capiva il mondo e lo descriveva. Parliamo di Giorgio Scerbanenco, morto nel 1969. Per fortuna editori come Sellerio e Garzanti rilanciano i suoi libri. E tutti o quasi a dire che era una specie di genio. Addirittura era «il Simenon italiano». Lasciamo da parte le polemiche contro le lacrime da coccodrillo, i facili revisionismi letterari. È un fatto incontestabile che Giorgio Scerbanenco ha indicato e aperto la strada a decine di scrittori italiani, che a lui dovrebbero rivolgersi con un inchino di riconoscenza, almeno quello. L'editore Sellerio ha ripubblicato otto suoi romanzi, tre dei quali hanno come protagonista l'ispettore Arthur Jelling. Questi è un archivista (settore crimini) della Polizia di Boston, ha 40 anni, è schivo, timido, propenso al rossore, dotato di eccezionali capacità deduttive e investigative. Ha moglie e un figlio. La sua vita è regolarissima: dopo il lavoro, tra le scartoffie dell'Archivio criminale, torna a casa, «legge il giornale mangiando, legge un libro a letto» e la mattina riprende la sua intensa attività cerebrale, ma sempre nei panni di «un qualunque impiegato, come il più oscuro degli impiegati». È restio a fare due passi in città, a prendersi delle vacanze. Al suo capo, il capitano Sunder, confessa di non aver mai visto Nuova York. Erano i tempi (anni Quaranta) in cui la Grande Mela si scriveva per metà in italiano. Anche perché con una delle storie di Jelling, Scerbanenco esordì nella collana dei «Gialli Mondadori» nel 1941 con Sei giorni di preavviso (oggi riproposto da Sellerio). Si italianizzava tutto: il maggiordomo John diventava Giovanni e così via. Tuttavia lo scenario e il nome del detective dovevano essere stranieri: non si doveva dare l'impressione che assassinii, ricatti e strangolamenti potessero avvenire nell'Italia moralmente bonificata dal Fascismo. È in America o in Inghilterra che si ammazzano le persone: questa la velina letteraria del Duce e della sua corte politica. E questo meccanismo censorio strangolò sul nascere la capacità italiana di affrontare, magari con prosa alla Gadda o quasi, i temi criminali.

Scerbanenco scrisse una novantina di romanzi e migliaia di racconti. Pare che sua figlia Cecilia conservi parecchi inediti, o comunque faccia gentile guardia a un baule zeppo di appunti del padre. Un padre che era «una formidabile macchina della scrittura», come ebbe a dire Oreste del Buono, ma anche un personaggio. Alto un metro e novanta, magrissimo, sempre molto educato, aveva molti amici. Fece carriera in fretta nel mondo dell'editoria, restando sempre nei giornali femminili. Era nato nel 1911 a Kiev e realmente si chiamava Wladimir Giorgio Scerbanenko. Per metà nobile: suo padre Valerian, era docente universitario e proprietario terriero, ucciso poi dal bolscevichi: sua madre, Leda Giulivi, era una nobildonna romana di grande fascino e bellezza. Giorgio e la mamma raggiungono Roma nel 1929, poi lei decide di trasferirsi a Milano, città in cui ci sono più occasioni lavorative. Un ufficiale medico, alla visita di leva, gli dice in romanesco: «A te te riformamo, sei fortunato a esse così secco». Giorgio fa mille lavori: tornitore, magazziniere, lettighiere della Croce Rossa. Come ricorda la figlia, non aveva finito nemmeno le elementari, ma di notte studiava e leggeva di tutto. Entrato per quasi un caso nel giornalismo, cominciò dal «basso», ossia come correttore di bozze. Sulla rivista Piccola riuscì a pubblicare la sua prima novella. Da allora la scalata. E lui si tolse un bel po' di soddisfazioni. La leggenda fece il resto: pare che negli ultimi anni arrivasse al lavoro in Rolls Royce con autista, dalla quale scendeva sorridente, con un gran cappello a falde larghe. In realtà l'auto del «principe russo» era una Mercedes. Con decine e decine di libri supervenduti e premiato in Francia con il «Grand Prix de la littérature policiére», ebbe lo sfizio di alloggiare in lussuosi alberghi e cenare al costosissimo Biffi di Milano. Quella città era ormai sua e lì ambientava molto delle sue storie, dove s'intrecciavano il miracolo economico con l'emarginazione di molti, la malavita feroce e i disgraziati malavitosi destinati al fallimento. Sempre secondo la figlia, di Milano Scerbanenco non poteva fare a meno: «Credo che questa città per mio padre abbia rappresentato quello che la Toscana è stata per i geni del Rinascimento: ha permesso alla sua scrittura di crescere. Da qui nascono i suoi capolavori». Ma per Milano nutriva amore e odio. All'inizio, lui esule ucraino, gli sembrava fredda, ostile, difficile a farsi capire. Poi costruì qui il suo nido, confortato da amici come Montanelli, Cederna, i Rizzoli, Montale. Negli anni Sessanta trovò un giusto equilibrio tra il proprio carattere e l'ambiente dove lavorava. Dei lombardi apprezzava la tensione verso il lavoro, ma detestava l'eccesso e l'ostentazione. Una città di provincia e già quasi metropoli. Così diceva. Per spiegare il nucleo intenzionale della sua scrittura, conviene ricordare ancora l'ispettore Jelling. Il quale, nel romanzo La bambola cieca (Sellerio), viene tratteggiato nella solitudine dell'Archivio criminale. «Guardava attraverso i vetri il cielo bianco roseo, mattinale» e, con una certa malinconia, si pone una domanda fondamentale. Sì, proprio quella che si rivolgono, o dovrebbero rivolgersi, gli autori di romanzi: «Chissà che cosa c'è nel cuore degli uomini. Di fuori sembrano una cosa, e di dentro, Dio solo lo sa che cosa sono». La «striscia di sole grigio» che entra dalla finestra lo sorprende così, col fiato tiepido a lenire il freddo delle dita. L'importante, come si può leggere in Non rimanere soli (Garzanti), è guardare gli altri, evitare l'isolamento esistenziale. Scerbanenco lo disse a chiare lettere in un breve scritto: «Il nostro mondo è questo: gli altri. Noi possiamo amarci, o sprezzarci, o essere indifferenti, ma dobbiamo stare insieme». Fino all'ultimo, «perché quando si muore lontano da chi si ama è vera morte».

Dei suoi racconti abbiamo accennato. Ce ne sono migliaia, molti dei quali brevissimi, scritti per giornali e riviste. Qualcuno gli rimproverava di sprecare la sua invenzione letteraria costringendola in due fogli al massimo, una storia che magari poteva diventare qualcosa di più. E lui rispondeva tranquillamente che la sua fonte non era mai secca. E aggiungeva: «Faccio fatica a scrivere solo quattro racconti su un tema, perché me ne vengono in mente dieci, trenta, e devo eliminarli». In tempi, come quelli di oggi, in cui spesso scarseggiano spunti narrativi per la televisione, mi domando (e non sono il solo, ovviamente) perché in Rai o in Mediaset non aprano, per esempio, il recentissimo volume di racconti pubblicato da Garzanti, Il Centodelitti (415 pagine a caratteri minuscoli). È una miniera. Non solo di fatti criminali, ma anche di situazioni profondamente umane, fatte di silenzio, di esitazione, di solitudine. Ad aprire la raccolta c'è il racconto L'agonizzatoio. Titolo un po' strano, sicuramente bruttino, ma quel che c'è dentro ha una grande forza di suggestione. È la storia di un quasi novantenne, ricco, elegante, metodico, detestato dall'infermiera e dall'autista. Una mattina d'estate si fa portare sul lungomare di Fregene. Medita sul suo passato in un punto particolare del litoraneo, poi decide di andare a costituirsi dai carabinieri. A uno stralunato ma gentile appuntato racconta che nel 1901, quando la pineta non faceva presagire lo scempio del distributore di benzina e gli ombrelloni «con donne quasi nude», uccise una ragazza, Beneditta. Era colpevole di concedersi a lui per avere l'occasione di rubare documenti politici riservatissimi. Era una spia asburgica, dice al carabiniere, l'ho massacrata con un'accetta. L'interlocutore gli fa presente che dopo trent'anni il delitto va in prescrizione. Ma lui, l'elegante commendatore con tanto di bastone inglese guanti di vitello scamosciato, considerato «un pagliaccio» dalla servitù «e dalla gente cafona», non s'arrende. Non riveliamo il finale. Nei Racconti neri (sempre Garzanti) c'è una storia che fa ricordare il miglior Simenon. Una donna fiorentina vive da anni a Parigi, al 28 dei Champs Elysées, in una modesta chambre avec salle de bain. Lavora in un piccolo studio commerciale dove vende all'ingrosso scarpe fatte in Toscana. È brutta, insignificante, senza parenti, con segrete palpitazioni sessuali, isolata comunque dal mondo. Verrà uccisa in modo strano: le fanno avere un mazzo di rose, lei afferra il biglietto di accompagnamento e fa scattare il napalm. Tutto è bruciato nell'esplosione, anche i pacati e sofferenti sogni di una donna sola, solissima. Un buon regista farebbe un ottimo film.

PIER MARIO FASANOTTI

Edited by Grea[t]! - 18/1/2010, 20:18
 
Top
tommaso berra
view post Posted on 2/12/2009, 16:35




CITAZIONE
Mettiamo che uno scriva tanti libri con un linguaggio semplice e senza alcun contorcimento letterario, che esca dal genere poliziesco per entrare in quello noir e viceversa, con una disinvoltura da lasciare allibiti, che usi tanti pseudonimi, magari per storie strappalacrime, che tenga una rubrica in un periodico femminile. Ecco, mettiamo tutto questo a grandi linee.

Le conseguenze, almeno in Italia, sono evidenti e collaudate: lo scrittore, anche se vende tante copie (o forse anche per questo) viene catalogato nella serie B della narrativa, la critica paludata lo snobba, non vince alcun premio letterario. Poi, decenni dopo, lo riscoprono e critici dalla penna raffinata e snob dicono che sì, effettivamente lui era il padre del noir italiano, che la sua semplicità stilistica non era sciatteria bensì un dono raro, che sapeva nei suoi scritti andare dritto nell'anima dell'uomo. E più ancora: era non tanto un ser- batoio formidabile di storie e personaggi, ma «un collezionista di persone» visto che ne afferrava così bene le paure, i disagi, i pudori, le sofferenze, le speranze e le piccole gioie. Lui, infaticabilmente e con una eccezionale gioia nello stare davanti a una Olivetti 22, capiva il mondo e lo descriveva. Parliamo di Giorgio Scerbanenco, morto nel 1969. Per fortuna editori come Sellerio e Garzanti rilanciano i suoi libri. E tutti o quasi a dire che era una specie di genio. Addirittura era «il Simenon italiano». Lasciamo da parte le polemiche contro le lacrime da coccodrillo, i facili revisionismi letterari. È un fatto incontestabile che Giorgio Scerbanenco ha indicato e aperto la strada a decine di scrittori italiani, che a lui dovrebbero rivolgersi con un inchino di riconoscenza, almeno quello.



bello questo recente articolo di fasanotti, ottimo il suo invito agli scrittori italiani a rivolgersi a scerbanenco almeno con un inchino di riconoscenza. fa riflettere anche quel riferimento a simenon: scerbanenco il "simenon italiano". per certi aspetti è così anche se la produzione poliziesca di simenon su maigret è sterminata rispetto ai cinque jelling e ai quattro duca lamberti di scerbanenco che come sappiamo morì a 58 anni. ma entrambi, simenon e scerbanenco, hanno scritto a 360 gradi. entrambi erano delle macchine per scrivere, entrambi hanno una loro particolare visione del mondo che contribuisce alla loro profondità. un solo neo in questo bell'articolo: il riferimento alle "storie strappalacrime". d'accordo, io ho letto meno d'un decimo della produzione scerbanenchiana, quindi potrebbe avere ragione fasanotti, ma finora lacrime non me ne sono state strappate e se ho capito l'uomo scerbanenco, non credo che mi capiterà un'esperienza del genere.
 
Top
orrest
view post Posted on 3/12/2009, 09:57




Sensazioni? delle più disparate leggendo Scerbanenco, tensione, rabbia, memoria storica, filosofeggiamenti (e questi forse non sono sentimenti ma percezioni) ma sicuramente nessuna lacrima...anzi, esultanza quando in sei giorni di preavviso si scopre il colpevole...ammirazione ne la bambola cieca...ma nessuna lacrima sebbene l'incipit di tommaso berra "il non aver letto meno di un decimo" è prezioso e, a mio parere, deve guidarci nello studio di scerba.
 
Top
2 replies since 27/11/2009, 08:32   176 views
  Share