Scerbanenco e io, Milano, 10 febbraio 2007, Fois - Lucarelli - Pinketts

« Older   Newer »
  Share  
orrest
view post Posted on 4/12/2009, 10:10




Scerbanenco e io

Marcello Fois, Carlo Lucarelli e Andrea G. Pinketts raccontano il loro rapporto con Giorgio Scerbanenco.

Da Scerbanenco ho imparato che attraverso il proprio tempo si può descrive qualcosa che rimane, o che aspira a rimanere. Più che un rapporto stilistico ho con lui un rapporto "etico". Sì, Scerbanenco, insieme ad altri autori ben inteso, mi ha educato a concepire la necessità di trama senza il timore della trama. Appartengo a una generazione di autori che si sono dovuti inventare una collocazione nel panorama letterario, collocazione che non sembrava attuabile e attuale. Ma, fortunatamente, c'era Scerbanenco. C'era cioè un autore che usava la scrittura per raccontare in un momento storico in cui raccontare non pareva essere il compito principale della scrittura. Nessuno ha saputo descrivere come lui l'Italietta del boom economico, nessuno ha saputo mettere in luce le miserie di una guerra civile, non dichiarata, in nome del benessere e i guasti che questa guerra ha prodotto in una nazione. Traditori di tutti vale un volume di Storia d'Italia contemporanea. E' un autore a cui devo molto: mi ha insegnato a non vergognarmi della mia provincialità.
Marcello Fois

Uno dei più grandi scrittori italiani del '900 come lui non può che essere importante per uno scrittore italiano del '900 come me, soprattutto quando ha scritto i libri che avrei voluto scrivere io. E' dal primo libro di Scerbanenco che ho letto, I ragazzi del massacro, che ho pensato che avrei voluto scrivere anch'io quelle storie e in quel modo. Storie di mistero e contemporaneamente di realtà. Raccontate con durezza ma con umanità e senza alcun pregiudizio, né ideologico né letterario o stilistico.
Da Scerbanenco ho imparato a raccontare storie di personaggi "ambigui", ossessionati da qualcosa - senso del dovere, ansia di giustizia, ricerca di se stessi - impegnati a fare i conti con un passato imbarazzante (De Luca e Duca Lamberti, per esempio); a guardare la metà oscura delle cose con cinismo consapevole che all'orrore non c'è limite, ma anche con il dolore umano di sentire che così non va e con la certezza etica di cambiare le cose (la "mano davanti alla locomotiva" di cui parla Scerbanenco nel suo Io, Scerbanenco); a raccontare le mie storie con uno stile il più possibile intenso, scorrevole e nervoso, a metà tra quotidiano e letteratura. Insomma, a "raccontare".
Carlo Lucarelli

Credo sia fondamentale l'impronta di Giorgio scerbanenco nel mio romanzo Il vizio dell'agnello, che parte descrivendo lo squallore poetico scerbanenchiano. In realtà, tutti i miei scritti sono permeati da questa, per fortuna leggera, eredità. Leggera nel senso di non invadente e perciò non negativa.
Una eredità senza passi di successione, quasi un testimone da acchappare in una corsa in un prato.
Io, tra l'altro, sono cresciuto nella Milano degli anni '60. Il fatto di vedermela proposta, lettore dodicenne, rappresentava già una sorta di archeologia e antropologia.
Sì, è stato sicuramente un maestro; il maestro di allievi fortunatamente indisciplinati, perché nessuno degli scrittori della mia generazione ha mai cercato di imitarlo, ma la sua eredità sta proprio nell'aver irradiato il campo minato di scrittori che senza idolatrarlo lo adorano.
Andrea G. Pinketts
 
Top
0 replies since 4/12/2009, 10:10   116 views
  Share