Non rimanere soli

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L'ora d'oro
view post Posted on 8/1/2010, 11:46




Cari Amici di Scerbanenco,

visto che nei giorni scorsi è stato toccato l'argomento, mi sembra buona cosa aprire una discussione tutta dedicata a Non rimanere soli. Che ne dite?

Tommaso Berra ha scritto in proposito:

«è un romanzo sulla solitudine, sulla morte lontani dalla patria e da chi si ama. un romanzo a tratti cupo (sto parlando sempre della prima storia intitolata "prima notte"). e poi: se fosse vero che il dattiloscritto nella valigetta è "non rimanere soli", scerbanenco, che varca il confine svizzero mi pare il 14 settembre del '43, lo avrebbe scritto a ridosso dell'8 settembre (e mi pare improbabile) o addirittura prima dell'armistizio. in questo caso, a mio avviso ancor più improbabile, saremmo di fronte ad uno scerbanenco antivedente del corso della storia. c'è poi da considerare che in "prima notte" scerbanenco racconta, romanzandola, la sua fuga in svizzera: federico navel è scerbanenco. quindi lo scrittore non poteva avere nella valigetta quel romanzo.
a questo punto mi chiedo se non abbiano ragione quanti (l'ora d'oro tra questi) ipotizzano che anche in "io, vladimir scerbanenko" possano esserci elementi romanzeschi come l'incontro con la contadina, di cui abbiamo già discusso altrove nel forum, e, appunto, il dattiloscritto nella valigetta da ragioniere. io sono portato a credere alla storicità degli episodi autobiografici raccontati in "io, vladimir scerbanenko" e in "viaggio in una vita". sono portato cioè a dare credito allo scrittore quando afferma (traggo la citazione dalla prefazione di ermanno paccagnini a "non rimanere soli"): "io ho scritto moltissimi romanzi, ma neppure con la migliore volontà potrei raccontare cose romanzesche sul mio conto". ma se è così, dubito fortemente che il dattiloscritto di cui si parla nelle note autobiografiche sia quello di "non rimanere soli", per i motivi che ho cercato di illustrare, con la speranza di essere stato chiaro».

Scerbancredi ha poi osservato:

«Anche io ho pensato alle tempistiche della fuga e a come fosse possibile che il romanzo che racconta la fuga in Svizzera era anche poi il romanzo della fuga in Svizzera. Non sapendo la verità, mi sono limitato a riportare Ventavoli, che se però è in errore, avrebbe commesso davvero un errore non da poco.
Per quel che riguarda Non rimanere soli, il cui intervento è in via di sviluppo poichè ben ragionato, posso dire che è senza dubbio un romanzo di emozioni forti. Sdolcinato no di certo, ma fortemente emotivo si. E sono emozioni non del tutto tristi e negative, come quelle tipiche che la guerra porta nel cuore delle persone, separandole, ma trovo che Scerbanenco scriva anche emozioni positive, gioiose e allegre, quelle che, nonostante tutto, i tre protagonisti si porteranno sempre dietro, anche se lontani l'uno dall'altro. Te ne accorgerai con la lettura, sono certo».

L'ora d'oro ha aggiunto in seguito:

«a) Federico Navel è Scerbanenco? Suggerisco molta prudenza. Attenzione alle letture autobiografiche! Possono essere fuorvianti. Ma attenzione anche alle letture referenziali (dov'è ambientato il romanzo? chi è questo personaggio nella vita reale? ecc.). Questa lettura, benché sollecitata da una legittima curiosità, porta con sé il rischio di travisare un testo letterario. Certo ci sono degli influssi, delle ispirazioni, ma bisogna stare attenti a non forzare la mano. Rinvio in proposito al saggio appena uscito con gli atti di un convegno tenutosi in Francia nel marzo del 2008:

Andrea Paganini, "Non rimanere soli" di Giorgio Scerbanenco, in Il romanzo poliziesco, la storia, la memoria, a c. di Claudio Milanesi, Astraea, Bologna 2009, pp. 103-133.

b) Qual era il manoscritto portato con sé da Scerbanenco durante la fuga in Svizzera? Riporto un breve stralcio dal saggio appena citato:

«Nel racconto autobiografico della sua fuga in Svizzera, Scerbanenco narra di aver portato con sé il manoscritto di un romanzo[1]:

Un romanzo d'amore. Avevo continuato a scriverlo fino a due giorni prima. C'era la guerra, i bombardamenti, i tedeschi che arrivavano dilagando da per tutto come le cimici sulla brandina in cui dormivo anni prima all'albergo popolare, ma io scrivevo romanzi d'amore, donne dolcissime, uomini forti e leali, un po' di cattiveria, ma infine sempre tenerezza, tanta tenerezza.

Ora, ammesso che effettivamente il romanzo in questione - iniziato ma non ancora portato a termine: «un centinaio di cartelle» - abbia fatto con l'esule il viaggio d'espatrio, di quale romanzo si tratta? Vista la descrizione fornitane - a distanza di vent'anni, però! - verrebbe da pensare proprio a Non rimanere soli. (Fra l'altro è con queste parole, «un romanzo di donne dolcissime, uomini forti e leali, un po' di cattiveria, ma infine tanta tenerezza», che viene presentato Non rimanere soli sul retro di copertina dell'edizione più recente).

Senonché, a questo punto, dagli scritti di Scerbanenco fanno capolino due manifeste incongruenze, difficilmente spiegabili:

1) se è vero che la vicenda narrata in Non rimanere soli, e in particolare la Prima notte, è stata modellata sulla traccia dell'esperienza biografica dell'Autore in esilio, essa non può risalire a un periodo antecedente la sua stessa fuga in Svizzera;

2) sempre ammesso che effettivamente la vicenda di Federico Navel (esule ospitato dalle sorelle Mager) sia stata scritta sul solco dell'esperienza dell'Autore (esule ospitato dalla famiglia Bannwart a Soletta), il 10 dicembre del 1943 Scerbanenco non poteva aver finito il suo romanzo – e, anzi, già averlo proposto a un editore di Zurigo –, come sostiene[2], perché sappiamo che soltanto a partire dal 20 dicembre di quell'anno egli è stato ospite della famiglia Bannwart.

Si può risolvere la seconda incongruenza, ritenendo che il romanzo Non rimanere soli che Scerbanenco in data 10 dicembre 1943 dice di aver finito e consegnato all'editore Albert Müller sia stato in realtà una prima versione, poi riveduta e portata a termine nella forma definitiva nei due o tre mesi successivi, integrandovi le vicende di primo piano. Analogamente – ci sembra – va risolta la prima incongruenza: è possibile che il romanzo inizialmente concepito in Italia abbia contemplato soltanto i brani di flashback (il passato dei tre protagonisti). Ciò spiegherebbe come Non rimanere soli sia potuto essere terminato in tempi così brevi, anche nelle circostanze precarie di un campo profughi o comunque in terra d'asilo.

Oppure il romanzo che Scerbanenco portava nella borsa era un altro, magari successivamente andato smarrito.

Oppure ancora - e anche questa non ci sembra un'ipotesi da scartare a priori - il fuggiasco Scerbanenco, in quel rocambolesco viaggio del 20 e del 21 settembre 1943, non portava con sé nessun romanzo. Non rimanere soli sarebbe stato scritto sull'onda emotiva dell'esilio in pochi mesi. E unicamente per raggiungere un certo risultato di poetica nel racconto della fuga, scritto negli anni Sessanta, vi avrebbe inserito l'episodio del manoscritto tratteggiato in modo tale che facesse pensare a un romanzo nato effettivamente più o meno in quel periodo».

[1] Il racconto si trova nella settima e ultima parte di Io, Vladimir Scerbanenco ed è stato in seguito riproposto dall’Autore come brano d’apertura di Viaggio in una vita, rispettivamente in appendice a Venere Privata, Milano, Garzanti, 2002, pp. 247-251, e in appendice a Il falcone e altri racconti inediti, Milano, Frassinelli, 1993, pp. 140-143.

[2] Cfr. la lettera di Scerbanenco all'Ufficio cantonale per il lavoro di Soletta del 10 dicembre 1943 (ora in Lettere sul confine), nella quale egli chiede l'autorizzazione a pubblicare il romanzo.

A questo punto, a prescindere da queste due osservazioni, aprirei la discussione su quest'opera di Scerbanenco.
Che romanzo è Non rimanere soli?

Edited by Grea[t]! - 10/2/2010, 12:16
 
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Grea[t]!
view post Posted on 8/1/2010, 12:02




CITAZIONE (Grea[t]! @ 21/11/2009, 00:41)
Prima di iniziare la narrazione di Non rimanere soli, l'autore scrive una pagina al lettore:

"[...] L'autore deve poi dire che avendo dovuto obbedire alle minuziose prescrizioni di polizia del paese in cui ha trascorso l'esilio dal '43 al '45, è stato costretto a mantenersi, per certi riguardi, su una linea di ipersensibile neutralità, specialmente per i nomi dei protagonisti, dei luoghi. Resti a ogni modo ben chiaro che i nomi dei protagonisti, come si intuisce subito, dovrebbero essere italiani, e che il nemico è il tedesco, il quale è stato la bestia feroce che tutti sanno. L'autore avrebbe potuto riscrivere il romanzo, cambiando i nomi e mostrando il vero volto del nazifascismo, quello dell'eccidio di piazzale Loreto a Milano o del campo di Buchenwald. Ma allora l'opera sarebbe divenuta un romanzo verista, o politico, o storico, invece di essere l'ingenua favola che è, non contaminata da nessun rimaneggiamento a scopo letterario."

E se il grassetto l'ho aggiunto io per sottolineare il pensiero di Scerbanenco, si deve dire parimenti che è lui stesso a lasciare il termine 'nemico' in caratteri normali, non corsivi, quasi a voler entrare ancora più in profondità, come una lama nel burro, dentro l'orrore nazista del Secondo conflitto.
Scerbanenco chiude poi mirabilmente, come il suo spessore gli consente. Dice che la sua rimane un' "ingenua favola", che volutamente non è stata ritoccata per fare un attacco politico e sociale ad un regime, e questo perchè Scerbanenco - almeno a me piace pensarlo - non vuole dare ai tedeschi questa soddisfazione. Lui che sempre ha scritto quello che la mente gli diceva, non modificherà il suo romanzo e quello che era il suo scopo originario.
Ma sia ben chiaro che il messaggio di chi sia il nemico passa fortissimo, anche se non detto esplicitamente.

Così avevo detto in curiosità biografiche a tommaso, riportando un pò il pensiero dello scrittore sul nazismo.
Ma, dopo averlo letto, posso dire che Non rimanere soli non è solamente un'ingenua favola. E' anche altro, e piano piano lo scopriremo insieme qui, dove L'ora d'oro ha opportunamente aperto questo spazio.
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 8/1/2010, 12:13




Ottimo!
Fin dalla premessa Al lettore l'Autore stesso dice che il suo intento non è referenziale! Afferma poi con ironico candore diminutivo che in quel caso «l'opera sarebbe divenuta un romanzo verista, o politico, o storico, invece di essere l'ingenua favola che è».
Ora, io credo che sia bene, prima di tutto, leggere Non rimanere soli come un'«ingenua favola», vale a dire senza idee precostituite, liberi da preconcetti, senza aspettative.
Ma poi, a una lettura più approfondita e meditata, cos'è Non rimanere soli?
- è o non è un romanzo autobiografico?
- è o non è un romanzo storico?
- è o non è un romanzo politico?
- che altro è?
Parliamone!
 
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tommaso berra
view post Posted on 8/1/2010, 13:00




e va bene, vuol dire che leggerò contemporaneamente "non rimanere soli" (sono fermo a "prima notte") e "i diecimila angeli" (rilettura per poterne parlare sul forum), con un occhio sempre a "annalisa" per via della bella discussione che abbiamo avviato. ma due piccole cose voglio dirle subito: mi ha colpito rilevare che tutti, dico tutti i cognomi dei personaggi del libro, da navel a clas, da notar a mager ecc. terminano in consonante, come fossero cognomi non italiani, ma neppure di una determinata altra nazione. cognomi di cittadini del mondo. credo che scerbanenco abbia voluto con questo espediente dare un'idea di universalità al testo. seconda osservazione: com'è bello l'uso della parola patria, ricorrente nel romanzo, da parte di giorgio. ha un che di limpido, di civile, di fraterno. scerbanenco parla di patria nel modo opposto a quello dei sedicenti paladini della patria dell'epoca, tromboneschi, cinici, violenti. mi viene in mente mazzini: amo la mia patria perché amo tutte le patrie.

Edited by tommaso berra - 8/1/2010, 18:00
 
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tommaso berra
view post Posted on 10/1/2010, 00:23




vi segnalo due brani che rendono abbastanza bene l'idea del concetto di patria come comunità civile e fraterna che è a fondamento di "non rimanere soli" (e mi riferisco a "prima notte" e all'inizio di "seconda notte", il punto in cui sono arrivato con la lettura nella recente edizione garzanti che contiene nel frontespizio un fastidiosissimo refuso: scerbabenco anziché scerbanenco!!! :wub: ).
pag. 109 ("prima notte"): "di giorno federico e giovanni lavoravano alla notar. c'era così poco da fare del resto, che finivano per chiacchierare e mettere cento volte a posto il mondo, per disfarlo altre cento volte il giorno dopo. la notar ormai aveva uno scarso bisogno di pubblicità, lavorava in economia. lavorava solo quel poco per sopravvivere a quella rovinosa guerra, per non mettere sul lastrico tanti operai. il denaro guadagnato in passato sarebbe servito a questo scopo, come in una grande famiglia. egli (federico n.d.r.) non doveva preoccuparsi, perché aveva già reso a suo tempo, col suo lavoro".
c'è in questo passo una concezione etica e sociale del capitalismo che fa riflettere e mi fa ricordare dell'indovinello su silone e scerbanenco che l'ora d'oro ci ha proposto qualche settimana fa (vedi bacheca, discussione intitolata "l'ora d'oro si presenta").
ecco la frase di scerbanenco citata da l'ora d'oro: «gli altri sono prima di noi. non è solo una questione di morale altruista. è qualche cosa di più profondo. è questo: che noi non siamo nulla senza gli altri. anche se per tutta la vita facciamo il contrario e mettiamo prima noi al centro del mondo, e intorno intorno gli altri, la verità è che la nostra vita non ha senso fino al momento in cui non ci spogliamo di tutto quello che abbiamo per darlo a un amico, a un estraneo o anche a un nemico. fin quando non facciamo così i nostri giorni sono vuoti come un deserto e la nostra anima come una noce secca, senza frutto dentro. noi possiamo anche illuderci di essere felici, di star bene, se pensiamo prima di tutto al nostro IO e poi, con quello che ci avanza, agli altri. ma è una pura illusione. La biografia di un egoista è la biografia di un infelice. [...] dare, non solo materialmente, ché questo sarebbe assai poco, ma soprattutto moralmente. dare noi stessi fin da quando apriamo gli occhi al mattino, a quando li richiudiamo la sera. in questo modo tutta la vita degli altri entra in noi». mi chiedo se non si possa parlare di una vena socialista di scerbanenco, declinata attraverso un forte solidarismo.
pag. 130 ("seconda notte"): "molti che non avevano voluto piegarsi al nemico dispotico erano rimasti sulle montagne. armi, munizioni, si trovarono, in modo non molto chiaro. il cibo pure, usciva dai suoi nascondigli; il contadino avaro diveniva generoso col partigiano".

Edited by tommaso berra - 10/1/2010, 00:48
 
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tommaso berra
view post Posted on 10/1/2010, 12:37




scusatemi se faccio una sorta di "tutto rimanere soli minuto per minuto", ma quando ti viene un'idea credo sia meglio metterla in circolo subito.
"non rimanere soli" è anche un romanzo di cani. il cane in scerbanenco. chissà, un giorno potremo parlarne con dovizia di particolari e con maggiori cognizioni; chissà quanti cani ha descritto giorgio nei suoi ottanta e passa romanzi e nei suoi mille e passa racconti.
mi limito ancora una volta a "prima notte" partendo dal cane diciamo così meno importante: è un cucciolo di bulldog che non ha nome e che scompare subito perché luisa lo rifiuta. poi ci sono i tre cani di mutti (e di federico che "amava e comprendeva gli animali"): mac, il piccolo bastardo bianco a macchie nere; lele, una barboncina di razza pura capace di grandi sacrifici per i suoi padroni (non dico altro) e la vegliarda jerrie, un collie bianco e marrone "che si lasciava fare ogni sorta di birbonate" da lele.
ma sentite che cosa dice l'autore di mac: "forse nella folla dei suoi progenitori di ogni razza vi era stato anche un fox terrier che aveva lasciato l'impronta. mac ignorava di essere un sanguemisto e anche se lo avesse saputo non vi avrebbe fatto caso". splendido: una staffilata di ironia che vale più di qualunque sermone contro il razzismo, una condanna del nazismo non solo come mostruosità ma anche come stupidità.
mac è un cane forte, coraggioso, spavaldo, pur essendo di piccola taglia, attaccabrighe con gli altri cani ma bonaccione con l'uomo e con le altre bestie ("non si poteva immaginare da chi avesse imparato a odiare in tal modo i suoi simili"). un giorno aggredisce un danese "grande come un vitello" ma non è mac ad avere la peggio, bensì il danese. ci ha voluto dire qualche altra cosa scerbanenco parlando di mac? forse sì, forse ci ha voluto dire che i reietti, i "dannati della terra" hanno grandi capacità di lotta e di resistenza contro chi li emargina e li perseguita. e che possono vincere.
e poi c'è bun, il dobermann bun. un personaggio importante. ed ecco la prima riflessione: è un dobermann, come il cane della wehrmacht e delle ss che sempre di più nel tempo è stato associato simbolicamente ai nazisti e sul quale, credo proprio per questo motivo, si dicono una serie di luoghi comuni privi di fondamento. credo che affidando ad un "festoso" dobermann, buonissimo ed intelligentissimo, un ruolo importante nella "prima notte", scerbanenco abbia voluto in qualche modo ribaltare la malvagia realtà del nazismo ed elevare così la sua protesta.
e allora, quando vogliamo leggere una bella pagina di letteratura "animale", apriamo "non rimanere soli" a pagina 36 della recente edizione garzanti e vi troveremo i cani "umani" di federico navel (come il "cane che parla" di jelling?); lo spavaldo mac, la fedelissima lele, il viziato bun. e leggeremo il bellissimo "dialogo" notturno, sulle rive del fiume, tra federico e questo grande bun.
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 10/1/2010, 13:23




Carissimo Tommaso!
Davvero interessantissime queste tue osservazioni su Non rimanere soli!!
Sia quelle sulla patria e sulla convivenza civile, sia quelle sui cani e la loro valenza simbolica! Complimenti!
Mi viene da dire che le letture si integrano e si completano a vicenda; varrebbe la pena di fare un convegno anche solo su un romanzo per vedere quante cose vi si possono trovare!
Davvero Non rimanere soli è un romanzo denso, densissimo di significati!
 
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irene48
view post Posted on 14/1/2010, 11:47




Cerco di inserirmi anch'io nella ricca discussione sul romanzo, con qualche osservazione nata a margine della lettura del testo, ma anche delle vostre riflessioni.
Affronto, anzitutto, la questione posta da "L'ora d'oro", che ringrazio per le puntuali e chiare considerazioni a riguardo, circa la categoria a cui ascrivere Nrs, [color=blue][font=Arial]premettendo che è sempre limitativo, e rischia di essere approssimativo, cercare di racchiudere la ricchezza di un testo letterario, che meriti questa definizione, in una formula che, come accade con una lente di ingrandimento, enfatizza degli aspetti a scapito di altri egualmente presenti e importanti. Le opere grandi sfuggono ad ogni tentativo di categorizzazione e questa di S. pare non faccia eccezione a tale verità.
Detto questo, penso di poter dire che Nrs è allo stesso tempo un romanzo "verista", "politico" e "storico" (per riprendere le parole dello stesso autore nella premessa al lettore) e non semplicemente "un'ingenua favola", come egli vuole farci intendere.
E' verista nel senso pieno del termine - diverso da quello attribuito dalla storiografia letteraria - perché si fonda su quel "vero" che, per Manzoni, doveva sostanziare l'opera d'arte, affondando le sue radici nella profondità dell'animo umano.
E' politico, perché, pur senza toni tribunizi e senza retorica, mette al centro il valore della solidarietà, che è politico per eccellenza.
E' romanzo storico - anche qui non nel senso che il termine ha nella critica: mancano i grandi affreschi che caratterizzano il romanzo storico della tradizione - perché la storia che interessa all'autore e che si intravede sullo sfondo, nella quale, pervicacemente sono lasciate nel vago le coordinate temporali e geografiche, come ha giustamente fatto rilevate Tommaso, è la storia eterna, e sempre attuale, dell'uomo solo davanti al doloroso mistero della vita, che soltanto la vicinanza affettuosa dell'altro può consolare.
Ma forse si può anche accettare di considerarlo un r. autobiografico solo dando a questo aggettivo il senso che intendeva Flaubert quando dichiarava M.me Bovary un suo ritratto. Su questo punto non c'è niente da aggiungere alle lucide riflessioni di "Lora d'oro" e alle note di apertura della prefazione di Paccagnini. Anche per me ogni romanzo, anche quello dichiaratamente autobiografico (e non è il caso di Nrs), rimane sempre un testo in cui il confine tra storia privata e invenzione è sempre sfumato e non c'è mai piena coincidenza tra l'io narrante e l'io narrato.
Quanto poi alla questione del "giallo" del manoscritto, messo in salvo, insieme al suo autore nella notte della fuga verso il "paese neutrale", condivido ancora una volta l'analisi di "L'ora d'oro".
Un'ultima riflessione sul tema del romanzo. Alle definizioni - tutte efficaci - proposte nel forum, "romanzo di cani", "romanzo sulla solitudine", si potrebbe aggiungere che Nrs è un romanzo della luce? Mi pare che anche questo motivo percorra in filigrana il romanzo acquistando un valore simbolico: la luce che "vince le tenebre". Si pensi alle pagine che parlano di Mutti e della sua mania di accendere tutte le luci della casa, perché "la luce è come l'acqua, l'aria, il sole, occorre alla vita"; o al notturno sulla riva del lago dove soggiorna Federico Navel (presente anche nelle pagine autobiografiche) mentre sull'altra riva è buio pesto. In tutti i sensi.
Scusandomi per averla fatta troppo lunga, saluto tutti.
irene48[
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 14/1/2010, 12:16




Grazie Irene!!
Molto molto interessante! Evidentemente le categorie da me indicate erano soprattutto una provocazione: perché a) Non rimanere soli le contiene un po' tutte, ma anche perché b) secondo me è soprattutto qualcos'altro (che non dico ancora).
Aggiungo solo tre osservazioni:

1) Sull'ambientazione temporale del romanzo: anche se il narratore non indica le date esatte, la prima notte è collocabile nel dicembre del 1943, poco prima del Natale, la seconda è una notte del gennaio 1944, la terza è quella sul 29 gennaio dello stesso anno.

2) Leggendo un'opera letteraria credo si debbano sempre distinguere tre piani: uno extratestuale - il piano su cui si muovono autore e lettore - e due intratestuali - quello della narrazione, su cui si muovono il narratore (o io narrante) e il narratario, e quello del narrato, su cui si muovono i personaggi. In un'opera (anche esplicitamente) "autobiografica" la non coincidenza di cui parli, quindi, non è solo tra l'io narrante e l'io narrato, ma tanto più tra di essi e l'autore (per esempio: il narratore dei Promessi Sposi, che trascrive un vecchio manoscritto, che si rivolge ai 25 lettori ecc. è una finzione letteraria, non è l'Alessandro Manzoni storico).
In questo senso Paccagnini, purtroppo, nell'introduzione forza troppo la mano: cerca nel romanzo (opera letteraria) delle spiegazioni sulla biografia dell'autore.

3) L'osservazione sulla luce è giusta e va approfondita (io l'ho già fatto, ma è bello farlo insieme e vedere se si giunge agli stessi risultati). :-)

Ciao a tutti!
 
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tommaso berra
view post Posted on 24/1/2010, 22:12




ho finito la "seconda notte" e sono... non dico come sono, perché per averlo detto in famiglia mi è stato risposto che probabilmente soffro di un pregiudizio pro-scerbanenco, come se fossi obnubilato. come se non avessi alcuna capacità critica. credo che non sia così e questo "non rimanere soli" mi sembra proprio una grande opera. da far leggere nelle scuole.
ma non sono in grado di parlarvene nella sua totalità, non fosse altro perché mi manca la "terza notte". perciò, più modestamente, insisto sul suo essere anche romanzo di cani. cani persone come a volte nei romanzi di scerbanenco le persone sono cani, grossi cani, detto in positivo, come quel pino de "i diecimila angeli" di cui ho parlato nella sezione "gli altri romanzi".
leggete quant'è bello questo brano (p. 172 della recente edizione garzanti con cronologia di nunzia monanni): giovanni si metteva a studiare e udiva dalla sua cameretta il parlottio di mutti con federico, il ringhiare dei cani che giuocavano, e quei sommessi rumori gli tenevano compagnia, pareva lo facessero studiare meglio, perché era bello studiare avendo vicino le persone a cui si vuole bene e che con una parola si possono chiamare accanto a noi. poche, semplici, profonde, ma soprattutto vere parole per dirci il bene dell'amicizia, della solidarietà. e che questo bene comprende gli animali che vivono con noi e che vengono equiparati alle persone.
e poi (p. 183) il breve intenso dialogo, sì dialogo, tra giovanni e la barboncina lele: "ciao lele", disse giovanni alla barbona. le prese la zampa destra e gliela strinse. lele era abituata a quel saluto, sapeva che era un segno di addio. cominciò ad agitarsi, fece capire con gli occhi che non voleva, che ne soffriva troppo. "sta' buona, qui seduta. non mi venire appresso", mormoro' giovanni carezzandola. "tanti auguri di buone ossa". all'ordine la cagna obbedì, lo vide uscire dalla stanza, e pur fremendo non si mosse di un millimetro.
a questo punto insisto nel proporvi un tema di riflessione più ampio. lo scerbanenco che ho conosciuto finora è una sorta di precursore dei diritti degli animali, come si direbbe oggi. non è certo un caso, né un lapsus, che egli parli di mutti, federico, lele e marc, esseri umani e animali, come di "persone" agli occhi di giovanni.
e qui, torno a ripetere, io ipotizzo un influsso di schopenhauer sul pensiero del nostro scrittore. il tema fu peraltro oggetto di polemica da parte del filosofo di danzica proprio nei confronti dell'amato kant di scerbanenco. schopenhauer rimproverava infatti a kant di aver costruito un sistema etico da cui gli animali erano esclusi ed estendeva agli animali i concetti di "dolore universale" e di "compassione". so bene che la questione è complessa e conosco anche le polemiche su schopenhauer inserito da alcuni (al pari di nietzsche) tra i precursori del nazismo. ma anche ammesso che queste tesi abbiano fondamento (ricordo che schopenhauer morì nel 1860, 73 anni prima dell'avvento di hitler al potere) non ci sarebbe niente di strano se l'antinazista scerbanenco, grande lettore di testi filosofici, avesse condiviso alcune idee di schopenhauer.

Edited by tommaso berra - 26/1/2010, 10:13
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 25/1/2010, 14:03




Caro Tommaso,

di ritorno dall'Italia, trovo il tuo interessante commento.
A proposito di Non rimanere soli: dal punto di vista narratologico, nella Seconda notte assistiamo a un atteggiamento interessante del narratore (nella baita dei Candar) che porta il lettore a un'esperienza particolare. L'hai notato? Un caro saluto!

PS: l'11 febbraio a Coira ci sarà un "Caffè letterario" dedicato a Non rimanere soli.
 
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tommaso berra
view post Posted on 25/1/2010, 15:15




CITAZIONE (L'ora d'oro @ 25/1/2010, 14:03)
Caro Tommaso,

di ritorno dall'Italia, trovo il tuo interessante commento.
A proposito di Non rimanere soli: dal punto di vista narratologico, nella Seconda notte assistiamo a un atteggiamento interessante del narratore (nella baita dei Candar) che porta il lettore a un'esperienza particolare. L'hai notato? Un caro saluto!

PS: l'11 febbraio a Coira ci sarà un "Caffè letterario" dedicato a Non rimanere soli.

grazie, l'ora d'oro. anche dell'indovinello cui al momento non so rispondere. riprendo in mano stasera il testo e spero di scoprire l'arcano. beati i grigionesi che si riuniscono nei caffé per parlare di "non rimanere soli". ce lo fai un breve resoconto del prossimo appuntamento, da grande cronista alla scerbanenco? evviva coira, capitale degli studi scerbanenchiani!
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 25/1/2010, 15:54




INDIZIO
(tratto da un articolo uscito poco fa negli atti di un convegno):

«(...) nell'analisi lessicale (...) rileveremmo inoltre - per evidenziare lo stile narrativo fortemente empatico - il frequente impiego del discorso indiretto e del discorso indiretto libero, nonché di verbi, per così dire, a focalizzazione interna, come "sentire", "provare", "sembrare", "pensare", "capire", "immaginare", "desiderare", "volere", "sapere", "commuoversi", "decidere", "percepire", "immaginare", "credere", "intuire", "preferire", "venire in mente", ecc.
L'unica scena descritta con distacco verista, a focalizzazione esterna, senza introspezione onnisciente, è quella che si svolge nella baita dei Candar - più o meno a metà del romanzo (la sola, non a caso, in cui nessuno dei tre protagonisti è direttamente coinvolto). Anche stilisticamente essa è interessante : i personaggi - il vecchio, la donna col bambino, la ragazza, nonché i due soldati stranieri - sono descritti come individui incapaci di comunicare, senza alcuna relazione tra loro, anonimi. Il clima di sospettosa diffidenza reciproca non permette di capire se i tentativi di allacciare un rapporto (come le offerte di cibo e di tabacco da parte dei Candar, peraltro rifiutate) siano sinceri o nascondano insidie. Mancano qui infatti del tutto i verbi che abbiamo chiamato "a focalizzazione interna", per cui al lettore non è dato di conoscere i pensieri dei personaggi e la rispettiva affidabilità».

Perché?
 
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tommaso berra
view post Posted on 25/1/2010, 16:39




CITAZIONE (L'ora d'oro @ 25/1/2010, 15:54)
INDIZIO
(tratto da un articolo uscito poco fa negli atti di un convegno):

«(...) nell'analisi lessicale (...) rileveremmo inoltre - per evidenziare lo stile narrativo fortemente empatico - il frequente impiego del discorso indiretto e del discorso indiretto libero, nonché di verbi, per così dire, a focalizzazione interna, come "sentire", "provare", "sembrare", "pensare", "capire", "immaginare", "desiderare", "volere", "sapere", "commuoversi", "decidere", "percepire", "immaginare", "credere", "intuire", "preferire", "venire in mente", ecc.
L'unica scena descritta con distacco verista, a focalizzazione esterna, senza introspezione onnisciente, è quella che si svolge nella baita dei Candar - più o meno a metà del romanzo (la sola, non a caso, in cui nessuno dei tre protagonisti è direttamente coinvolto). Anche stilisticamente essa è interessante : i personaggi - il vecchio, la donna col bambino, la ragazza, nonché i due soldati stranieri - sono descritti come individui incapaci di comunicare, senza alcuna relazione tra loro, anonimi. Il clima di sospettosa diffidenza reciproca non permette di capire se i tentativi di allacciare un rapporto (come le offerte di cibo e di tabacco da parte dei Candar, peraltro rifiutate) siano sinceri o nascondano insidie. Mancano qui infatti del tutto i verbi che abbiamo chiamato "a focalizzazione interna", per cui al lettore non è dato di conoscere i pensieri dei personaggi e la rispettiva affidabilità».

Perché?

bella domanda e magnifica analisi lessicale, indovinellomane di un l'ora d'oro. azzardo: perché scerbanenco intende in tal modo negare/rimuovere la realtà dell'occupazione straniera contrapponendola alla "vera" vita che egli celebra attraverso l'incrociarsi delle vite di federico, giovanni e mutti. solo quel rapporto è degno di introspezione psicologica e quindi della "focalizzazione interna". nella baita dei candar occupata dai pur cortesi soldati stranieri non pulsa invece la vita ma si manifesta un accidente della storia. la scena, perciò, va raccontata con freddo distacco verista. e allora mi fai venire alla mente (scusami se sono un po' fissato) quella splendida pagina, di cui abbiamo tanto parlato, dell'autobiografia di giorgio: "cambiai di mano alla borsa, continuando a camminare, sfinito, ma adesso sapevo che la realtà non era quel fuggire, quella guerra, quello spietato pericolo di vita, ma, all'opposto, proprio quello che si trovava scritto nel mio romanzo e in tanti altri romanzi, di tanti altri che scrivevano come me, di tenere donne e teneri sentimenti...". se ho indovinato, il merito è di giorgio.
altro non riesco a dire. ma forse potrebbe rivelarsi utile l'aiuto di marianna de leyva e irene48, che nell'analisi dei testi, con relativi deittici e straniamenti, mi sembrano molto molto ferrate.
 
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L'ora d'oro
view post Posted on 25/1/2010, 16:48




Hm, penso che vi sia dell'altro.
Ma vediamo cosa dicono marianna de leyva e irene48!
Ciao e a presto!
 
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32 replies since 8/1/2010, 11:46   975 views
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