UOMINI RAGNO, La "bestia", le spie, la viltà e il coraggio: l'Italia nel cuore

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tommaso berra
view post Posted on 8/2/2010, 17:26




“Uomini ragno” è una raccolta di racconti, quattro gemme preziose, che Scerbanenco pubblicò nel 1946, anche se concettualmente potrebbero essere considerati opere del periodo svizzero. O meglio, opera, al singolare, quasi un romanzo, data la fondamentale unitarietà ispirativa che la sorregge. Fatti realmente accaduti da cui l’autore trae spunto immergendoli -ce lo dice lui stesso- “in un bagno di fantasia che dona ad essi il colore del romanzo, ma non li priva della sostanza documentaria”.
Sono racconti di guerra e di servizi segreti, di paura e coraggio, di disumana perfidia e spietata giustizia. Ovunque “la bestia”, il tedesco nazista, che a differenza di “Non rimanere soli” Scerbanenco chiama con il proprio nome. Non a caso Roberto Pirani, che ha scritto la postfazione dell’edizione Sellerio 2006, l’ha intitolata “Contra Teutonicos”. Da una parte gli uomini, dall’altra “i tedeschi” tenendo però conto che si può nascere in Germania, come Kant, Schopenhauer, Goethe, e non essere tedeschi, e viceversa in Brasile ed esserlo. Lo sciacallo è tedesco, il cianuro è tedesco, il terremoto è tedesco, la guerra è tedesca.
Il primo racconto, “Uomini ragno”, che dà il titolo al libro, è ambientato nel 1935 a Milano (“la bella città di Milano”, alla quale Scerbanenco dà un’anima). E’ la storia di un giovane ufficiale del controspionaggio italiano che ha scoperto una pericolosa cellula nazista che tesse la sua perfida ragnatela in Italia, ma viene lasciato solo dai suoi superiori: l’Italia mussoliniana, ci fa capire Scerbanenco, è già succube di Hitler, ben prima del patto d’acciaio. E’ un racconto affilato come la lama di un rasoio, crudo. Sullo sfondo s’intravvede lo Scerbanenco di Duca Lamberti.
Il secondo racconto, “Inseguimento”, è la storia di un militare italiano “sbandato” che dà la caccia ad uno scaltro ufficiale nazista, finto profugo che si è infiltrato nelle linee alleate. Annunziato, questo il suo nome, “non aveva mai fatto il poliziotto, ma forse aveva il mestiere nel sangue ...”. Un altro investigatore irregolare di Scerbanenco. Tre le ambientazioni: il lago Maggiore, Roma, Napoli. Lo stile di Scerbanenco è in ebollizione, con ottimi risultati. Splendide le pennellate su Napoli. Eccovene due: “Il tappo del radiatore brillava al sole di Napoli, Napoli libera, e anche il sole era libero, e benché fosse gennaio vi era come un tepore dolce in tutte le cose, il dolce tepore di Napoli che non esiste neppure alle isole Hawaii, e in nessun’altra parte del mondo”; “Tanto a Napoli c’era tutto, e dove mangiano tre, possono mangiare quattro. Grande paese, Napoli”.
Il terzo racconto, “Delitto e castigo sul mare”, è ambientato in un paesino non meglio precisato dell’Italia centrale, a pochi chilometri dal Regno del Sud, da dove si svolgevano trasbordi clandestini di antifascisti, di notte, su un barcone. "Qualche informatore diceva che il primo ad usufruire di questi trasporti fosse stato proprio Benedetto Croce, ma il comandante Stammer non ci credeva...". Scatta però una trappola organizzata dal comando tedesco con l’aiuto di un disertore. Non diciamo altro, ma soltanto che in questo racconto mozzafiato appare una piccola grande donna scerbanenchiana, Rosella, che “aveva una fiamma negli occhi ... una fiamma quasi vendicativa e inflessibile”.
Anche nel quarto racconto, intitolato “Vittoria e pace”, c’è una grande donna scerbanenchiana, l’americana Cora, la protagonista. E’ in parte anche un racconto autobiografico con i suoi ampi squarci sul campo profughi di Magliaso, nel Canton Ticino, che ospitò Scerbanenco nel 1944: le baracche ordinate, belle a vedersi da lontano, maleodoranti però di orina, creosoto e patate marce. Cora lavora per i servizi segreti degli Stati Uniti. E’ bellissima: “Bruni, incredibili, morbidi capelli. Alto, agile, adescante corpo”. Ha grande intuito e lucidità, e altrettanto grande è il suo cuore. E’ forte, onesta, ardente, come tutte le grandi donne scerbanenchiane. “Vittoria e pace” è la storia di una schifosissima caccia all’ebreo, per cinquemila marchi, ma anche del coraggio e della generosità partigiani.
E’ uno Scerbanenco patriota italiano questo di “Uomini ragno”. L’Italia è nel suo cuore dalla prima all’ultima riga: attraverso Alberto, il capitano del controspionaggio che sfida la cialtroneria fellona del regime; Annunziato e Angelina, che antepongono il dovere al loro sfinimento; Rosella e il dottor Caldina, che si offrono al fuoco tedesco pur di portare a termine la missione; il partigiano Remigio, altro splendido personaggio, che è stato torturato ai testicoli, fa fatica a camminare, ma attraversa fiumi gonfi e campi fangosi pensando a quel “povero cristo” di ebreo, più povero cristo di lui. Nel cuore di Scerbanenco c’è l’Italia degli umili, dei derelitti, l’Italia della povera gente: “Lo seguì in paese. Il paese si chiamava Caslano. Povere case che non avevano nulla delle inamidate villette di legno svizzere. Case italiane, perché povere e sporche. E povera gente”.
Ho letto “Uomini ragno” dietro consiglio di un’amica che di Scerbanenco qualcosa sa. Me lo ha presentato così: “agghiacciante e rivelatore”, come "Annalisa e il passaggio a livello". Aveva proprio ragione.

Edited by tommaso berra - 18/2/2010, 22:21
 
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Grea[t]!
view post Posted on 10/2/2010, 11:53




Che passione traspare da questa recensione di tommaso!
Potremmo dunque vedere Uomini ragno come contraltare di Non rimanere soli? Magari secondo un rapporto di causalità che vede prima (anche se esce nel '46) questo libro, la sua invettiva - esplicita ed implicita - contro la Germania di Hitler, e poi Non rimanere soli, con invece le conseguenze della guerra, l'odio e la solitudine, la lontananza e il dolore dell'animo.
Se Non rimanere soli è - e non è, come stiamo discutendo - un'ingenua favola, Uomini ragno come potremmo definirlo?
Azzardo: romanzo storico d'invettiva? Dico romanzo e non racconti proprio perchè tommaso garantisce l'omogeneità dei racconti. Mi lancio nel vuoto, invece, citando l'aggettivo storico.

Mi pare giusto approfondire l'argomento, visto l'importanza del titolo in questione.
 
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tommaso berra
view post Posted on 10/2/2010, 18:24




CITAZIONE (Grea[t]! @ 10/2/2010, 11:53)
Che passione traspare da questa recensione di tommaso!
Potremmo dunque vedere Uomini ragno come contraltare di Non rimanere soli? Magari secondo un rapporto di causalità che vede prima (anche se esce nel '46) questo libro, la sua invettiva - esplicita ed implicita - contro la Germania di Hitler, e poi Non rimanere soli, con invece le conseguenze della guerra, l'odio e la solitudine, la lontananza e il dolore dell'animo.
Se Non rimanere soli è - e non è, come stiamo discutendo - un'ingenua favola, Uomini ragno come potremmo definirlo?
Azzardo: romanzo storico d'invettiva? Dico romanzo e non racconti proprio perchè tommaso garantisce l'omogeneità dei racconti. Mi lancio nel vuoto, invece, citando l'aggettivo storico.

Mi pare giusto approfondire l'argomento, visto l'importanza del titolo in questione.

Belle domande. Sul rapporto di causalità lascerei la successione Nrs-Ur, nel senso che forse quando ha scritto Nrs Scerbanenco non ha ancora preso totalmente coscienza della brutalità nazista. In Nrs, lo ricorderete, c'è finanche una certa umanizzazione dell'invasore. Ne abbiamo parlato a proposito della scena che si svolge nella baita dei Candar. Non ricordo di aver incontrato in quel romanzo casi di ferocia. Se ce n'è qualcuno che mi sfugge, c'è però anche quella umanizzazione. E in fondo Mutti può finanche andare in giro per la città incendiata nonostante il coprifuoco. Incontra un milite che collabora con il nemico invasore (un repubblichino diremmo da un punto di vista storico) ma è gentile, la soccorre mentre sta per soffocare per il fumo, si comporta insomma con umanità, da compatriota. Poi Mutti incontra due pattuglie nemiche (naziste diremmo) che non le dicono nulla "tanto doveva essere disperato il suo andare così sola per le vie, in quella bolgia". In Ur, invece, non c'è alcuna umanità del nemico. C'è tanta ferocia della "bestia". E Giorgio sente il bisogno di chiamarla con il suo nome, addirittura con pagine che a prima vista (parlo del racconto "Uomini ragno" che dà il titolo alla raccolta) potrebbero apparire, ma non lo sono, razziste nei confronti del popolo tedesco.
Romanzo storico d'invettiva? Non mi convince del tutto. Perché l'autore non fa invettive. Non c'è un filo di retorica (che fa capolino invece in Nrs, ma a me personalmente in piccole dosi non dispiace). E' un romanzo (quattro racconti) crudo, agghiacciante. E' comunque l'opposto, contraltare dice bene Scerbancredi, della "ingenua favola" di Nrs. E allora come definirlo? Azzardo anch'io: romanzo della spietatezza. Spietato dall'una e dall'altra parte, anche se le due spietatezze non si equivalgono, tutt'altro. Romanzo spietato perché, comunque, spietata è la guerra.
Leggilo presto, amato capocomico, e non te ne pentirai! E' un Giorgio da Champions League.

Edited by tommaso berra - 10/2/2010, 18:52
 
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tommaso berra
view post Posted on 17/2/2010, 10:02




CITAZIONE (Grea[t]! @ 10/2/2010, 11:53)
Se Non rimanere soli è - e non è, come stiamo discutendo - un'ingenua favola, Uomini ragno come potremmo definirlo?
Azzardo: romanzo storico d'invettiva? Dico romanzo e non racconti proprio perchè tommaso garantisce l'omogeneità dei racconti. Mi lancio nel vuoto, invece, citando l'aggettivo storico.

Si suol dire che la notte porta consiglio e a me credo l'abbia portato. Ripensando alla risposta data nei giorni scorsi a Scerbancredi circa la sua formula "romanzo storico d'invettiva" mi sono detto che forse sono stato precipitoso. E perciò all'avanzata francese può seguire la ritirata spagnola (ma non è il bello del forum questo?). Credo che la classificazione morfologica di Scerbancredi vada meditata attentamente. E io intanto mi correggo: un'invettiva c'è in Ur. E' durissima, e addirittura regge, a mio avviso, l'intera raccolta: è quella che pronuncia Ambrogio Gorelli, nel caffè di corso Vittorio Emanuele, contro la Germania nazista. Da qui, credo, il titolo della post-fazione di Pirani, "Contra Teutonicos". Che l'invettiva non la lanci direttamente Scerbanenco, il quale invece in altri romanzi interviene in prima persona quando vuole esprimere un concetto (vedi Nrs), non ha alcuna importanza. Ed io ancora non mi rendo conto come mai rispondendo a Scerbancredi non ho associato il discorso di Ambrogio Gorelli al termine "invettiva" da lui proposto.
Detto questo, mi fermo: ma mi riprometto di tornarci su in modo articolato anche in relazione alle parole "romanzo" e "storico". Chissà se L'ora d'oro o qualcun altro dei nostri valorosi esegeti può dare una mano...

Edited by tommaso berra - 18/2/2010, 12:27
 
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tommaso berra
view post Posted on 18/2/2010, 13:03




CITAZIONE (tommaso berra @ 17/2/2010, 10:02)
CITAZIONE (Grea[t]! @ 10/2/2010, 11:53)
Se Non rimanere soli è - e non è, come stiamo discutendo - un'ingenua favola, Uomini ragno come potremmo definirlo?
Azzardo: romanzo storico d'invettiva? Dico romanzo e non racconti proprio perchè tommaso garantisce l'omogeneità dei racconti. Mi lancio nel vuoto, invece, citando l'aggettivo storico.

Si suol dire che la notte porta consiglio e a me credo l'abbia portato. Ripensando alla risposta data nei giorni scorsi a Scerbancredi circa la sua formula "romanzo storico d'invettiva" mi sono detto che forse sono stato precipitoso. E perciò all'avanzata francese può seguire la ritirata spagnola (ma non è il bello del forum questo?). Credo che la classificazione morfologica di Scerbancredi vada meditata attentamente. E io intanto mi correggo: un'invettiva c'è in Ur. E' durissima, e addirittura regge, a mio avviso, l'intera raccolta: è quella che pronuncia Ambrogio Gorelli, nel caffè di corso Vittorio Emanuele, contro la Germania nazista. Da qui, credo, il titolo della post-fazione di Pirani, "Contra Teutonicos". Che l'invettiva non la lanci direttamente Scerbanenco, il quale invece in altri romanzi interviene in prima persona quando vuole esprimere un concetto (vedi Nrs), non ha alcuna importanza. Ed io ancora non mi rendo conto come mai rispondendo a Scerbancredi non ho associato il discorso di Ambrogio Gorelli al termine "invettiva" da lui proposto.
Detto questo, mi fermo: ma mi riprometto di tornarci su in modo articolato anche in relazione alle parole "romanzo" e "storico". Chissà se L'ora d'oro o qualcun altro dei nostri valorosi esegeti può dare una mano...

Torno sulla sollecitazione di Scerbancredi circa la classificazione e la morfologia di “Uomini ragno” . Finora abbiamo due ipotesi: "romanzo storico d’invettiva", "romanzo della spietatezza". Già sulla parola romanzo, come abbiamo visto, ci sarebbe da discutere. Si tratta infatti di quattro racconti. Ma l’unitarietà dell’ispirazione e della collocazione temporale in senso storico mi fa pensare al romanzo, anche se tra un racconto e l’altro non ci sono intersecazioni. Addirittura la vicenda del primo racconto si svolge nel 1935, quelle degli altri tre dieci anni dopo, nel periodo della Resistenza partigiana. Ma il racconto del ’35 può essere considerato come una sorta di prologo, con la sua invettiva antitedesca di cui abbiamo parlato. Sulla base di queste considerazioni mi sento di ribadire che estensivamente possiamo considerare “Uomini ragno” un romanzo, al pari, per rimanere in tema resistenziale, dei “Ventitré giorni della città di Alba” di Beppe Fenoglio, opera costituita da dodici racconti, ma tenuta insieme da un’unica ispirazione.
Romanzo sì dunque “Uomini ragno”, ma “storico”? Su questo aggettivo, ho forti perplessità. Se volessimo usarlo nella nostra circostanza credo che faremmo una forzatura estensiva assai maggiore della precedente. Il romanzo storico classico presuppone infatti una certa distanza temporale tra l’autore e l’oggetto della narrazione. Il progenitore di questo genere è, com’è noto, l’”Ivanhoe” di Scott (1819) che è ambientato nel Medioevo. Così come la vicenda de “I promessi sposi” (1827) si svolge nel Seicento. Romanzo storico, da questo punto di vista, ripeto classico, non potrebbe essere considerato neppure “L’educazione sentimentale” (1869), che peraltro è essenzialmente romanzo di formazione, per scrivere il quale Flaubert, famoso per la sua meticolosità, si documentò in modo straordinario, ricevendo il plauso di storici di professione per la sua magnifica ricostruzione della Francia della “Rivoluzione di luglio”. Con il medesimo criterio classico non si potrebbe definire “storico”, venendo a un’opera dei nostri giorni, neppure “La storia” di Elsa Morante (1974), ambientato nella Roma degli anni ’40, per non parlare de “Il rosso e il nero” (1830) in cui Stendhal racconta una vicenda accaduta solo tre anni prima. Eppure esso è un grande affresco della Francia della Restaurazione. Se c’è contemporaneità sarebbe più corretto parlare di “romanzo realista” . E questo vale naturalmente per la “Comédie humaine” di Balzac. Ma il confine è sottile, come spesso accade nella tassonomia.
Affresco. Forse è questa la parola chiave che può permetterci di derogare ai canoni temporali classici e definire quindi “storico” un romanzo che più propriamente dovrebbe dirsi realista. Ed io personalmente, da semplice lettore, ho sempre considerato “storici” sia “Il rosso e il nero” sia “L’educazione sentimentale”. Affresco nel senso di ricostruzione ambientale, di costume, anche politica, di una società. Affresco come coralità, come complessità della materia narrata. E’ affresco in tal senso “Uomini ragno”? Direi di no, nulla intendendo togliere alla bellezza di quest’opera tagliente come la lama di un rasoio.
Meglio perciò rinunciare a definire Ur “romanzo storico”. Potremmo però dignitosamente considerare l’ipotesi “romanzo di ambientazione storica”, che è meno impegnativa ma più corrispondente alla struttura dell’opera scerbanenchiana che affronta intrecciandoli temi storici importanti: l’asservimento (solo psicologico?) al nazismo degli apparati d’intelligence del regime fascista ben prima del Patto d’acciaio, l’avanzata delle truppe alleate dopo l’8 settembre, il militarismo tedesco, la Resistenza, le infiltrazioni, le delazioni e il doppiogiochismo (temi questi che troveremo in “Traditori di tutti”), la caccia all’ebreo. C'è finanche, come abbiamo visto, un riferimento storico preciso a Benedetto Croce, con la fantasiosa ipotesi che il filosofo napoletano avesse usufruito di un trasporto clandestino notturno via mare organizzato dalla centrale antifascista diretta dal dottor Caldina.
E veniamo all’ultimo punto: “romanzo d’invettiva” o “romanzo della spietatezza”? La prima soluzione è certamente suggestiva ed ha un suo robusto fondamento ma avrebbe senso, a mio avviso, solo se mantenessimo l’aggettivo “storico”. E poi, a ben vedere, c’è una sola invettiva, per quanto importantissima, nel primo racconto. Negli altri tre non ci sono invettive, ma solo il gelido scorrere degli eventi. La spietatezza è invece il filo conduttore di tutta l’opera. Spietato il carnefice, naturalmente, ma spietate anche le vittime quando riescono ad avere la meglio sul carnefice.

Edited by tommaso berra - 18/2/2010, 22:26
 
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Grea[t]!
view post Posted on 26/2/2010, 14:19




Anche se non ho ancora la completezza della lettura, mi preme rispondere a tommaso il quale ha a sua volta appagato la mia curiosità riguardo al come poter definire quest’opera scerbanenchiana.
Mi riferisco allora al primo racconto, Uomini ragno, e scriverò UR per riferirmi ad esso, mentre adotterò il titolo esteso per significare l’insieme dei quattro racconti.
Uomini ragno potrebbe forse essere definita una fotografia. Meno sicuramente dell'affresco di cui parla tommaso, con cui concordo nel pensare che non regge il paragone in termini di genere con le altre opere da lui citate. La fotografia è l'impressione su pellicola di un momento, un modo per fermare il tempo e conservarlo nella memoria attraverso un senso, la vista, che ci catapulta a quel ricordo, a quell'attimo, come se il tempo appunto non fosse passato. E' chiaro che per definire UR fotografia dobbiamo un po' distorcere questo concetto, pensando non ad un tempo fermo quanto piuttosto ad un piccolo tempo, a dei momenti, ad un insieme di attimi che fanno la durata del racconto.
La fotografia per definizione non mente, non cambia quello che cattura, ma si limita a rappresentare quello che attraverso la luce si fissa sull'obiettivo. E questo è quello che fa anche Scerbanenco: rappresentare alcune situazioni di un breve tempo storico, scattare una foto della realtà popolare milanese nel 1935.
Due considerazioni.
Primo. I fatti narrati in UR sono realmente accaduti, è lo stesso Scerbanenco a dircelo. Questo è un elemento importante.
Secondariamente, come corollario alla prima considerazione, Uomini ragno è anche un romanzo, cioè contiene al suo interno elementi fittizi, di fantasia, creati dalla mente di Giorgio e non fini a se stessi, ma funzionali alla rappresentazione.
Da queste due cose possiamo già dire come UR sia uno scritto con venature realiste e veriste, dalla forte connotazione storica. Tommaso ha ragione a dire che non è un romanzo storico, perché ogni composizione ha le sue caratteristiche e questa non denota quelle tipiche del romanzo storico. Potremmo allora dire che, in accordo con la classica miscellanea scerbanenchiana, questo scritto racchiude in se diversi elementi: la storicità del periodo che avvicina alla guerra; il realismo/verismo dei comportamenti; l'immaginazione della scrittura.
L'insieme dei tre aspetti rende il racconto davvero agghiacciante, forse come il lettore non si aspetta anche se dovrebbe. Alla fine della lettura restano solo il silenzio e il pensiero a domande insolubili, proprio come chi guarda una vecchia foto raffigurante qualcosa di cui non si spiega la ragione.
Analizziamo in breve i tre aspetti sopracitati.
L’elemento storico dello scritto è lo stesso di cui parlava tommaso: è “la bestia” cioè il tedesco, colui che non può essere considerato uomo, che si aggira furtivo alle spalle dei veri uomini, meticoloso come i ragni nella costruzione della ragnatela e pronto ad insinuarsi in casa altrui. Quattro mesi Ambrogio Gorelli si interroga se i tedeschi siano classificabili come uomini, ed alla fine arriva alla conclusione che ci sono da una parte uomini nati in Germania (come Kant, Schopenhauer, che sono grandi uomini) e dall’altra c’è il tedesco, la bestia, che si riconosce perché lascia sui suoi passi la propria bava. Ma questo l’ha già spiegato bene tommaso, parlando giustamente dell’invettiva fortissima di Gorelli.
Il realismo è invece dettato dai fatti, contornati si da elementi immaginari, ma pur sempre accaduti. Li conosciamo bene questi fatti: storie di uomini, storie di omicidi nascosti e disumani, senza giustizia, storie di spionaggio tra il movimento nazionalsocialista e i partigiani italiani. Storie di guerra.
Poi c’è Giorgio e anche qui, in questo tipo di contesto, non mancano tipici attori scerbanenchiani. Mi riferisco certamente alla coppia Alberto e Adina - da notare ancora la passione di Giorgio verso i diminuitivi, Adina sta per Adelina -, l’uno impegnato nel suo lavoro segreto di intercettazione e l’altra lì ad attendere il suo amore, negli unici momenti che egli può dedicarle. Solo in questi momenti di grande passione Adina vive la sua esistenza fino in fondo, abbandonandosi serena a ciò che di più bello possiede adesso nella sua vita. Continui sono, a proposito, i riferimenti dell’autore all’amore carnale: finalmente un bell’amore, tenero e appagante, dopo il sesso abietto descritto nelle pagine di Annalisa ed il passaggio a livello. La vita dei due è molto diversa, forse incompatibile, ma entrambi sono per l’altro “una cosa bella”, una di quelle poche cose belle della vita che sono necessarie alla vita stessa. Senza nemmeno una cosa bella non si può vivere. Questo magnifico momento interiore, universale per ogni uomo, ce lo regala Scerbanenco attraverso i pensieri di Alberto.

“Così egli poté sviare il discorso e guardare la ragazza, che era bella, gli piaceva, e ascoltare la sua voce che pure era bella, o per lo meno gli piaceva molto. Perché da molto tempo aveva capito che una cosa bella e che piace molto, è assolutamente necessaria per la vita. Nessuno, neppure il più oscuro impiegato di questa terra poteva fare a meno di una cosa bella. Aveva conosciuto una volta un vecchio operaio ubriacone, ed egli, benché così povero, aveva due cose belle nella vita. E la seconda era il vino; ma questa non era la più bella. La più bella, ciò che ai suoi occhi gli rendeva degna la vita di essere vissuta, era un grosso temperino, con due lunghe lame, così lunghe che potevano uccidere agevolmente un uomo. E quando egli apriva il grosso temperino per mostrarlo si vedeva che era felice, e che non era del tutto scontento di essere nato.
E per lui, la cosa più bella che avesse era Adina, anche se dal suo modo di trattarla non si capiva quanto veramente era bella per lui.”


Si capirà dopo quanto Adina è bella per Alberto.

“Se ne andò di là, e vide Adina. Le braccia nude fuori dalla coperta, perché i termosifoni scaldavano molto, dormiva col capo giù dal cuscino; una gamba piegata, l’altra tenuta distante, attraverso tutto il letto, si disegnavano sotto la coperta.
Accese una sigaretta, si levò le pantofole, era già in pigiama, e le scivolò a fianco. E’ così dolce sdraiarsi a fianco di una donna nuda, la sigaretta in bocca, mentre lei dorme. Ecco, nel sonno vi sente vicino, vi aspettava, cede senza svegliarsi alle vostre carezze, vi fa posto, si incunea vicino a voi. Voi sentite il caldo e la pressione del suo corpo su di voi, e intanto continuate a fumare, fissando ora il suo volto, ora il paralume sul comodino. Vi vengono in mente o poesie, o lontani ricordi.
Tra bande verdi e gialle - d’innumeri ginestre - la bella strada alpestre - discende nella valle. Dolce cantilena di Gozzano.”

Alberto e Adina però non sono soli, ci sono anche le bestie, sempre in attesa e con la loro bava pronta ad imbrattare tutto ciò che toccano. Di pagina in pagina il clima di UR si fa sempre più aspro tant’è che l’invettiva di Ambrogio Gorelli si potrebbe anche rivederla in Alberto, anche se meno accentuata. Alberto che all’inizio risponde ad Ambrogio dicendo che si i tedeschi sono uomini, pian piano cambia, fino ad chiamarli anch’egli bestie. E se è vero che Alberto è in incognito e che dunque non potrebbe, per necessità, esporsi così con Gorelli, è vero anche che in Alberto non sembrerebbe esserci all’inizio il veleno che sprigiona ogni parola di Ambrogio. Le cose mutano, e l’invettiva a mio avviso la fa anche Alberto, con meno parole, ma non con meno forza.
La bestia è in agguato, la bestia che è il cuore di UR ed anche della Storia, quella vera degli anni 30.
A questo punto guardate cosa si inventa Scerbanenco, rimanendo legato alla Storia, ma con il gusto del romanzo: la bestia donna. Già, perché la bestia non ha sesso e allora perché non mettere una donna al posto giusto, visto che Giorgio ama le donne nei suoi romanzi e le tiene sempre in grande considerazione? Il riferimento non può che essere a Marieleen, bionda ed elegante vipera nazista. Implacabile è la bestia, ancor di più, allora, lo è la donna della bestia. Potrei chiedere: se gli uomini tedeschi non sono uomini, le donne tedesche possono allora essere definite donne?
Scerbanenco non perde un colpo e come si vede l’agio dell’autore negli scritti brevi: la rapidità della scrittura, lo stile inconfondibile e le soluzioni più inusuali fanno dei racconti in genere l’habitat ideale di Giorgio. In Uomini ragno c’è anche di più, c’è la fotografia di un pezzetto di Storia, raccontata con il tocco prezioso del grande scrittore.
 
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tommaso berra
view post Posted on 26/2/2010, 22:32




Credo proprio che ci siamo. L'integrazione di Scerbancredi è importante e molto condivisibile. A cominciare dalla definizione di fotografia intesa come essenzialità. L'affresco nel senso classico che si usa per parlare dei romanzi storici (prescindendo dalla disputa di scuola sul fatto che un contemporaneo dei fatti narrati possa essere definito autore di un romanzo storico) avrebbe diluito il tutto e tolto forza alla drammaticità della rappresentazione che risulta progressivamente agghiacciante. Per questo c'era bisogno della fotografia di una Milano grigia, cupa, silenziosa, ovattata. E' di una Milano così che ha bisogno il ragno per costruire con la sua bava la ragnatela.
Molto pertinente anche la sottolineatura degli aspetti erotici di questo primo dei quattro racconti che dà il titolo al "romanzo", attraverso i due bellissimi passaggi più significativi riportati da Scerbancredi. Sì, "Uomini ragno" è proprio un testo prezioso.
 
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6 replies since 8/2/2010, 17:26   1057 views
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