Così Cechov arrivò sui Navigli, Il Corriere della Sera, 8 Novembre 1993, Leonardo Vergani

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Grea[t]!
view post Posted on 10/2/2010, 19:11




Oreste del Buono raccoglie in volume i racconti in cui Giorgio Scerbanenco faceva il verso ai grandi scrittori stranieri.

Così Cechov arrivò sui Navigli

In una settimana riusciva a scrivere cinque racconti due puntate di un romanzo, tre lettere per la "posta del cuore" e vari articoli. Instancabile sgobbone, Rizzoli si pentì di averlo licenziato. E un giorno il direttore di "Annabella" gli affidò uno strano incarico. Che lui eseguì senza batter ciglio.


Che sulla macchina da scrivere riuscisse a grandinare libri, articoli, racconti, lettere per la "posta del cuore", iniziando la sua fatica assai prima che gli operai entrassero in fabbrica e finendo quand' era notte inoltrata, è cosa notissima. Se Georges Simenon riusciva a terminare un poliziesco in una settimana, lui non era da meno, ma era anche capace di lasciar da parte un romanzo, tirando fuori una cartella dalla piccola Olivetti con le sue dita esangui e lunghissime, e di attaccare un altro lavoro senza neppur un sospiro di disappunto. Navigava nel Continente Rosa dei romanzi d'amore, senza mai incagliarsi, in un'epoca in cui non esistevano le "telenovelas" e in cui le lettrici dovevano fare almeno la fatica di immaginare il volto delle sue protagoniste. E quando si dedicò al romanzo nero, seppe inventare la figura di un investigatore, un anti Maigret tra i più riusciti del genere. Chi dubitasse di Giorgio Scerbanenco non ha che da leggere "Il Falcone e altri racconti inediti" che Oreste del Buono ha ripescato negli archivi dei settimanali e che ripropone per la casa editrice Frassinelli: stupisce in un autore talvolta sottovalutato la qualità della scrittura, l'acutezza delle osservazioni, il ritmo. Fu quella dei sette racconti scelti da del Buono una piccola scommessa, la testimonianza di un singolare esperimento letterario che lo scrittore affrontò con la sua precisione di bravo artigiano e con grande umiltà. L'idea fu di Vittorio Buttafava, allora direttore di "Annabella", un'idea di trent'anni fa quando i settimanali femminili non erano ancora scivolati sulla china del pettegolezzo e non annusavano sotto le lenzuola sfatte nelle case dei divi. Buttafava si disse: esistono nella letteratura racconti bellissimi che il grande pubblico non legge più perché sono scritti in stile antiquato o ambientati in tempi e luoghi troppo diversi dai nostri. Perché non riscriverli in un linguaggio o con una sceneggiatura moderna? L' uomo che poteva farlo lo aveva sottomano, era Giorgio Scerbanenco. Ed ecco allora "Boule de Suif" di Maupassant, la storia di una piccola prostituta costretta ad andare a letto con un ufficiale prussiano nella Francia del 1870, diventare la stessa storia nell' Italia del 1944 sotto l'occupazione nazista. E gli altri racconti sono tratti da Cechov, Boccaccio, de Musset, Cervantes, Lorenzo de' Medici, Dostoevskij. Di fronte a questa proposta di "remakes" chiunque si sarebbe tirato indietro. Scerbanenco invece era uno di quegli incredibili sgobboni che non dicono mai di no. Non sappiamo se la scommessa ebbe un successo editoriale, ma lo ebbe per quell'allampanato tuttofare che, come dice del Buono, non si presentò diverso dall' autore amato, ma come uno Scerbanenco superiore a se stesso. Scerbanenco per tutta la vita fu prigioniero del suo cliché di scrittore che consolava generazioni di cuori infranti e faceva sognare legioni di giovanette e di piccole Bovary di provincia. Sapeva fare ben altro, ma era preso da una ruota che lo stritolava. Figlio di un russo, fucilato durante la guerra civile, e di una italiana, arrivato in Italia da bambino, aveva conosciuto la miseria nera: era stato tornitore, magazziniere, barelliere di ambulanze, rappresentante di macchine calcolatrici. Conobbe la fame, quella vera e non la dimenticò mai. Fu Zavattini, che curava allora "Piccola" e altre riviste della Rizzoli, a pubblicargli la prima novella, la prima di una serie sconfinata. Era il tempo, allora, dei settimanali femminili che Angelo Rizzoli, il "Cummenda", trasformava in miniere d' oro. Rizzoli aveva costruito il palazzo di via Carlo Erba come sede del suo impero, una grande fabbrica di sogni, e mentre sfornava uno dopo l' altro i tomi dell'enciclopedia Treccani, rimettendoci, come diceva lui ., inondava le edicole con valanghe di riviste, "Novella", storie strappacuore con le fotografie virate in viola delle stelle del cinema, il "Secolo Illustrato" inchiostro marrone, "Lei" in seppia, "Cineillustrato" virato in blu. Zavattini aveva visto giusto dentro quel primo racconto e Scerbanenco si rivelò una macchina per scrivere storie d'amore, tutte però con la sua sigla inconfondibile. Cominciò a guadagnare e, con la "nonchalance" per il denaro tipica degli slavi, acquistò un lussuoso macchinone, facendosi accompagnare in piazza Carlo Erba da un autista in divisa. Il "Cummenda" ogni tanto si affacciava al balcone per prendere una boccata d' aria e la scena scandalizzò il suo animo di ex Martinit. Scerbanenco dovette vendere l' auto, masticando amaro, e per dimenticare lo smacco accettò l' offerta di Mondadori trasferendosi nella rivale "Novellissima". Ma la nuova rivista non decollò e fu chiusa dopo pochi mesi. Scerbanenco si ritrovò sul lastrico. "Ma ormai sapevo di poter contare qualcosa sul mercato, ero in grado di scrivere quattro o cinque racconti alla settimana, di mandare avanti due puntate di romanzi ogni sette giorni, di tenere due o tre rubriche di corrispondenza, e di buttar giù un numero imprecisato di pezzi e pezzetti necessari al completamento di un numero di questa o di quella testata. Il Cummenda Rizzoli mi riprese perché gli ero utile e perché, per la mia disavventura personale, gli sarei costato meno ora di prima, ma siccome lo avevo tradito, decise di non rivolgermi mai più la parola. Ha mantenuto la promessa. Sono rientrato alla Rizzoli come macchina per scrivere storie d' amore, e basta...". Una vita passata a tempestare sulla portatile. Si è detto che Scerbanenco odiava il lieto fine, obbligatorio del genere rosa, e probabilmente e' vero. Lo dimostrò quando, verso la fine della vita, affrontò il poliziesco con "Venere Privata", "I milanesi ammazzano il sabato", "Traditori di tutti", "I ragazzi del massacro", che ebbero uno straordinario successo e che, tradotti in Francia, ebbero le recensioni entusiastiche di Boileau e Narcejac, ispiratori con i loro romanzi dei film di Hitchcock e Clouzot. Sullo sfondo di una Milano alla Demetrio Pianelli, lo scrittore ambienta le sue storie nei bar tabaccheria, nelle pizzerie, in interni con il perpetuo odore di minestrone. Il suo investigatore è Duca Lamberti, un medico radiato dall' Ordine perché protagonista d' un caso di eutanasia. E dentro quei gialli esemplari c'e' una strana capacità di fiutare il male e il dolore, l'umiliazione, l'offesa, il delitto e il castigo, un po' il retaggio dell'anima russa che Scerbanenco si portava dietro. Alla fine del libro, "Il Falcone", ci sono pagine in cui lo scrittore spiega se stesso, un ritratto senza illusioni e senza menzogne, talvolta spietato. Oreste del Buono ha fatto bene ad aggiungerle. Ne viene fuori un grande professionista del romanzo minore e il ritratto di un'epoca che ebbe in lui, narratore rosa sui generis, un sommesso ma attentissimo raccontatore.

LEONARDO VERGANI
 
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tommaso berra
view post Posted on 10/2/2010, 19:56




Ho letto di sfuggita, ma mi sembra un gran pezzo, di un grande giornalista. Però del ritornello su Scerbanenco, stupisce qua, stupisce là, e invece guarda che scrittore, ma è sottovalutato, sono un po' stufo. Possibile che non si siano accorti di Scerbanenco Scerbanenco (ripetizione voluta) allora? Domanda provocatoria: se ne sarebbero accorti se Giorgio fosse salito sul carro di qualche partito?
 
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1 replies since 10/2/2010, 19:11   187 views
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