Johanna della foresta, Un "giallo d'amore" tra i larici della fredda ma civile Svizzera

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tommaso berra
view post Posted on 4/3/2010, 10:56




“Un giallo d’amore”, recita il sottotitolo della seconda edizione 1974 di “Johanna della foresta”, romanzo del 1955. Un giallo che si svolge nella Svizzera nord-occidentale, cantone di Solothurn, in un’immensa foresta di larici dove lavorano come boscaioli alcuni immigrati stagionali di varie nazionalità, tra i quali due italiani di Chioggia, Donato Dominari e Francino Monsari. Il primo studente di medicina, l’altro di “belle lettere”, costretti dalla miseria a troncare gli studi e a cercare lavoro fuori dalla patria. Un doppio giallo, si potrebbe dire, due essendo le vicende delittuose di cui si narra, che ruota attorno ad una ragazza dalle trecce nere e gli occhi celesti che risplendono nel buio e stordiscono Donato fin dal primo incontro. Una donna di straordinaria umanità, la maestra del villaggio Gertrude Gugenheider, e un grande investigatore, che è anche un magnifico personaggio, uno dei più riusciti che abbia finora incontrato leggendo Scerbanenco: il capitano Heinrich Glicken della polizia militare svizzera. La foresta che vive, “la foresta potente e lussureggiante” ma “insensibile come le stelle del famoso romanzo che stanno a guardare il destino di noi poveri uomini”. E poi i miasmi della guerra che ammorbano ancora i cieli d’Europa, l’orrore che non si cancella, la grande storia accanto alle piccole storie: il nazismo con le sue spie, l’eccidio staliniano di Katyn, la Polonia martoriata ancora una volta nel cuore di Scerbanenco dopo “Anime senza cielo” del 1950: l’anticomunista Scerbanenco non dimentica mai la “bestia” nazista.
Con questo romanzo Scerbanenco torna dieci anni dopo nella Svizzera che lo ha accolto esule nel settembre del ’43, quando fuggiva dal nazifascismo. Torna nel cantone di Solothurn che l’aveva accolto appena varcato il confine: prima il campo di smistamento di Busserach, poi la famiglia Bannwart e ancora un campo, a Lostorf, secondo la precisa ricostruzione di Andrea Paganini in “Lettere sul confine”. C’è molto di autobiografico, credo, nel suo narrare, cominciando forse dalle baracche. Sentimenti, sensazioni, pensieri dei personaggi di “Johanna”, devono essere stati anche i suoi. “Quando era arrivato lì in Svizzera la prima sera, tutto gli era sembrato ostile, freddo, quasi nemico. Ora lasciava, invece, in questo ostile, freddo paese, affetti profondi che lo sconvolgevano, Gertrude, Szapocki, l’austriaco tubercoloso…”, pensa Donato. Credo che sia stato così anche per Giorgio che subì ostilità e privazioni nei campi profughi in cui visse (ce le ha descritte nel racconto “Vittoria e pace” di “Uomini ragno”) ma conobbe la sconvolgente solidarietà di persone straordinarie come don Felice Menghini, il sacerdote poeta di Poschiavo. Una piccola Svizzera chiusa, impaurita, ripiegata su se stessa, a causa di quella guerra che non la riguardava eppure le vomitava addosso migliaia di profughi. E una Svizzera storicamente generosa, che si rimbocca le maniche e accoglie i fuggiaschi in nome di principi morali sacri. Scerbanenco però ha il dono della comprensione dell’animo umano. Sa che non tutti possono essere don Menghini, non tutti possono essere, nella finzione letteraria, Gertrude Gugenheider. Perciò, quando Donato entra nell’osteria del padre di Johanna (quante bevute di kirsch in questo romanzo!), gli avventori fanno finta di non vederlo, ma lui sente i loro sguardi alle spalle “ed erano sguardi pesanti, di gente che stava per perdere la pazienza. Hanno ragione, pensò. Avevano ragione, vivevano tranquilli nel loro piccolo, felice paese, poi arrivavano loro, gli stranieri, e cominciavano ad accadere disordini, turbolenze. E adesso anche un delitto. Avevano ragione”. E però, “come vi era zia Martha chiusa e retrograda che non sopportava gli stranieri, così vi era in compenso Gertrude che spendeva la sua vita e il suo cuore per aiutare coloro che lasciavano la loro patria per venire in Svizzera a lavorare”.
La fredda ma civile Svizzera, che assicurava ai lavoratori stranieri stagionali condizioni di lavoro quanto meno dignitose. Non era certo così nell’Italia del 1955. Non è sempre così, ancora, nell’Italia del 2010, soprattutto per gli immigrati, viene spontaneo pensare leggendo le pagine che Scerbanenco dedica alla vita quotidiana nelle baracche, alle condizioni igienico-sanitarie di quei lavoratori e al taglio dei larici, con pignoleria botanica (“anche il larice è un abietaceo”) e competenza forestale.
“Johanna” è un romanzo più che dignitoso. Ha i suoi punti deboli, le sue cadute di tensione, qualche incongruenza e svolazzo sentimentale, ma anche alcuni personaggi di spessore, ben costruiti, vivi. In cima alla classifica metterei Gertrude e il capitano Glicken, i due simboli della Svizzera democratica, generosa, accogliente, civile. Gertrude è la tipica donna scerbanenchiana che si sacrifica per amore. Lei addirittura per un amore non corrisposto e senza speranza. Glicken è un investigatore sornione ma molto acuto (“Io penso di continuare così come abbiamo fatto finora, come se fossimo poco furbi”, dice il capitano al suo superiore di Solothurn), rigido, ma comprensivo e umano, pur senza contravvenire ai suoi doveri. Tanto più che è toccato dall’amore e ad un certo punto si scopre a pensare, lui, il militare impettito, con i versi di un sonetto di Shakespeare: “Se potessi insegnarti che meglio sarebbe, pur non amandomi, almeno dirmi che m’ami…”. L’amore rende gli uomini migliori, capaci di slanci generosi, ci dice ancora una volta Scerbanenco attraverso la nobile figura di questo militare svizzero.
“Johanna” ha anche una struttura narrativa di tutto rispetto, alla Scerbanenco, che afferra il lettore con le sue esche disseminate qua e là come i sassi per segnare il tragitto durante un percorso accidentato, anche se certi svolgimenti polizieschi possono risultare prevedibili proprio a causa di alcune esche, sia per la vicenda della scomparsa di Johanna, sia per la soluzione dell’enigma dell’omicidio finale per il quale gli indiziati sono numerosi ma il lettore può intuire la verità con un certo anticipo, anche a proposito del dottor Warchen, lo stupratore dal viso di cartapesta, che Scerbanenco tratteggia con grande efficacia. E quando Donato si pone il problema se ucciderlo a sangue freddo strangolandolo, ecco che s’affaccia un tema tipico del mondo morale scerbanenchiano, che ritroveremo nei romanzi del ciclo di Duca Lamberti: il dilemma sulla liceità della soppressione dell’essere ripugnante. “Ma Warchen era un uomo. Un uomo ripugnante ma un uomo”. Il professore di anatomia, che era “un filosofo romantico”, ricorda Donato, gli parlava di quella macchina meravigliosa che è il corpo umano, macchina però viva, per cui qualunque uomo, “anche il più malvagio e sanguinario e spregevole, porta in sé questo meraviglioso miracolo della vita … Uccidere un uomo significava spegnere la luce di questo miracolo”. Donato è lacerato dal dubbio. Così sarà per Duca. Susanna Paany (“Traditori di tutti”) uccide, ma si costituisce alla polizia “perché non si deve uccidere, nessuno deve farsi giustizia da se stesso”. In realtà è Scerbanenco ad essere lacerato, a ritenere sostanzialmente valide entrambe le scelte. Egli oscilla tra l’una e l’altra posizione etica, anche se fa prevalere il rispetto della legge
SPOILER (click to view)
e nel romanzo di Johanna s’affida a un deus ex machina.

La grande storia, dicevamo all’inizio, che s’intreccia con le piccole storie. Johanna Mulenbach è figlia di un’ex spia nazista che si è macchiata di un assassinio, un losco figuro che odia gli stranieri, al punto da tenerli lontani dalla sua osteria. Ma qualcuno a Lunderrach conosce il suo passato e può ricattare. Il veleno nazista è ancora in circolazione nell’Europa degli anni cinquanta. E poi Valeriano Szapocki, un barone polacco luetico e attaccabrighe, onesto e generoso, che vive nel ricordo della moglie uccisa dai sovietici nei pressi di Poznan con una sventagliata di mitra, dopo essere stata obbligata a scavarsi la fossa. Qui il discorso si fa complesso. Più avanti, infatti, Szapocki, parla esplicitamente del famoso eccidio di Katyn del 1940, attribuendolo ai sovietici (anche se la frase è un tantino ambigua, ma dal contesto risulta chiara). All’epoca – il libro, ricordiamolo, è del ’55 – era prevalente la tesi secondo cui il massacro di circa ventiduemila polacchi, molti dei quali ufficiali, avvenuto in realtà anche in località diverse dalla foresta russa di Katyn, fosse stato opera dei tedeschi. Nel ’44 il presidente americano Roosevelt aveva contribuito ad insabbiare la verità ordinando la soppressione del rapporto scritto da un suo emissario che al termine di un’inchiesta aveva concluso per la responsabilità dei sovietici: Usa e Urss erano ancora alleati. Scerbanenco, invece, non ha esitazioni e credo che sia uno dei primi scrittori a sostenere la tesi che ha avuto consacrazione ufficiale solo di recente, con le scuse di Gorbacev alla Polonia, i documenti forniti da Eltsin e, da ultimo, il film di Wajda del 2009.
“Tienimi, Donato, non mi piace farmi vedere ubriaco da questi svizzeri. Non sono cattivi, ma loro non capiscono, non sono mai arrivati i russi nel loro paese, né i tedeschi (ecco l'ambiguità di cui parlavo sopra n.d.a.), e allora non possono capire, se avessero avuto una fossa di Katyn, una fossa con dentro diecimila ufficiali massacrati, come l’abbiamo avuta noi polacchi, allora capirebbero”, dice Szapocki all’amico italiano nelle ultime drammatiche pagine di “Johanna”. Ma il finale, bellissimo, ha il tono dell’elegia. Scerbanenco concede l’onore dell’ultima scena a Gertrude e Glicken, insieme sotto la pioggia alla stazione di Solothurn. “Komm, gehen wir jetz!”. Su, vieni, adesso andiamo. E sulle labbra dell’austero capitano, il tedesco diventa il più dolce e tenero degli idiomi.

Edited by tommaso berra - 5/3/2010, 08:25
 
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