| DELITTO ALL' ITALIANA
Chissà se ce la farà questa volta Giorgio Scerbanenco. Se ce la farà intendo ad avere ciò che non ha mai avuto, perché i soldi alla fine sono arrivati, l'attenzione è venuta anche quella, perfino sul piano internazionale, ma il riconoscimento pieno, risolutivo, unanime, di scrittore di rango quello non c'è stato allora e non c'è neanche adesso. Eppure è stato lui a creare, più di tanti romanzi e film di cui s'è molto parlato, personaggi, ambienti, intrecci e com'è ormai chiaro, a tanti anni di distanza, il colore e il sapore di un'Italia molto speciale, quella del primo boom degli anni Sessanta e di una Milano che ne è stata, in modo non del tutto consapevole, la capitale. L'occasione potrebbe essere quella buona. L'editore Garzanti ha cominciato a ristampare i suoi romanzi in una collana a lui intitolata (I libri di Giorgio Scerbanenco) e anche se sarebbe stato meglio che la collana avesse la firma d'un curatore e qualche piccola nota d'accompagnamento, bisogna riconoscere che la veste è gradevole, contenuto il prezzo, le copertine eleganti, molto appropriate le foto che le illustrano almeno nei primi due volumi usciti: Venere privata (pagg. 252, lire 10.000), Traditori di tutti (pagg. 231, lire 10.000). Nel panorama degli scrittori italiani che dal punto di vista biografico è piuttosto uniforme, Scerbanenco rappresenta l'eccezione. La vita di questo grande professionista del romanzo minore (così lo ha definito Oreste del Buono) è essa stessa, giustamente, un romanzo. Suo padre era Valerian Scerbanenko, insegnante di latino e greco all'università di Kiev. All'inizio del secolo, nei primi mesi del 1910, sceso a Roma per ragioni di studio, incontrò e sposò Leda Giulivi, ragazza borghese della capitale, di cui non avremmo saputo nulla, non fosse stato per queste insolite nozze, e per i tragici avvenimenti che ne seguirono. Dopo il matrimonio, il professor Scerbanenko torna a Kiev con la moglie Leda. Un anno dopo, agosto 1911, nasce il loro primo e unico figlio, Vladimir Giorgio. Ma a Kiev quell'anno scoppiano anche alcuni sanguinosi tumulti e il professor Valerian ritiene più prudente che moglie e bambino tornino a Roma. Si ripromette di raggiungerli. Non potrà mai farlo, sopravvengono difficoltà d'ogni genere rese insormontabili dall'inizio della Grande Guerra (agosto 1914). Tra i profughi di Odessa Appena finita la guerra, Leda, col piccolo Vladimir, attraversa tutta l'Europa e torna in Russia, dove nel frattempo la rivoluzione conosce le sue confuse fasi iniziali. A Kiev riesce solo a sapere che suo marito è stato fucilato. Subito dopo lei e Vladimir vengono internati in un campo a Odessa. Ricordando quei momenti, il futuro scrittore annoterà in modo secco e pudico: "A Kiev, mamma aveva saputo che papà era stato fucilato dai rossi. Era professore, indossava una divisa, come tutti i funzionari dello Stato". In Russia, gli studenti rossi avevano voluto colpire lo Stato in quella divisa. La situazione di Leda è grave. Sposata a un russo, viene considerata soggetta alle leggi del paese, come del resto suo figlio, nato a Kiev. Intanto però arrivano a Odessa tre navi italiane mandate da Roma per raccogliere i profughi e, in un modo mai interamente chiarito, Leda e Vladimir riescono a imbarcarsi e ad arrivare a Trieste. A Odessa tutti i negozi erano chiusi, le strade completamente deserte, ogni tanto si sentiva sparare, ogni tanto passavano colonne interminabili di soldati. E c'era la fame. Per anni la fame farà buona compagnia al giovane Scerbanenco, anche dopo il ritorno in Italia e l'arrivo a Milano, a 18 anni, nel 1929. Alto, magrissimo, di naso aguzzo, occhi leggermente sporgenti nell'ovale ristretto del volto, capelli dall'attaccatura sempre più alta. Fu per non sentirsi più chiedere: ma lei è russo? che cambiò la k del suo cognome in una c e fece cadere Vladimir adottando il secondo nome, Giorgio. Italianizzato nel nome, oltre che nella lingua che è sempre stata l'italiano, (La mia lingua madre fu l'italiano e non ho poi più saputo altre lingue) il giovanissimo Giorgio cerca di trovare più che un lavoro, un po' di cibo da mettere sotto i denti. Era così magro che un medico appena lo vide lo spedì di corsa in sanatorio dove si scoprì che non era affatto tisico, aveva solo bisogno di mangiare. In ospedale, scriverà: "Scoprii l'esistenza dello zabaione, con due uova, con tre, con quattro, con quante ne volevo. La suora che lo distribuiva mi guardava in faccia e me ne allungava un altro oltre alla razione normale." L'incontro con Zavattini In sanatorio, scoprì anche il desiderio: "Nel sanatorio vi era una sola donna, un'infermiera che non credo potesse essere una eccezionale bellezza. Lì era la sirena, la Circe di quasi trecento uomini, compresi gli agonizzanti". Lavora alla Borletti come magazziniere, alla Croce Rossa come autista d'ambulanza nei turni di notte, come fattorino, uomo delle pulizie, contabile. Intanto scrive racconti, a decine, e Zavattini che in quegli anni dirige un settimanalino di varietà edito da Rizzoli, Piccola, gliene pubblica uno. Gaetano Afeltra ha ricostruito e raccontato l' incontro tra Scerbanenco e Zavattini: "Scerbanenco si presentò con un impermeabile double-face, scamiciato, senza cravatta. Così vestito, con quella sua faccia lunga e scavata, parlò, parlò e non ci volle molto a Zavattini per capire chi era. Fu assunto in redazione e seduta stante consegnò il suo primo romanzo Il terzo amore. Giorgio Scerbanenco, futuro grande autore di gialli, o di giallo-neri, comincia come scrittore rosa. In poco tempo diventa il protagonista assoluto dei rotocalchi Rizzoli, in particolare di Novella, guadagna cifre notevoli, tiene rubriche di corrispondenza (su Bella di cui è direttore con lo pseudonimo Adrian), scrive migliaia di racconti, decine di romanzi, amareggiato, dice chi lo conobbe, solo dall'obbligo del lieto fine, lui che aveva una vera anima slava e che delle situazioni e degli amori preferiva cogliere l'aspetto dolente o malinconico. Lavorava alla macchina da scrivere con un ritmo da operaio alla catena di montaggio, quattro cartelle all'ora, capace di scrivere ovunque, in qualunque situazione, anche sulla spiaggia davanti alla cabina, quando andava al mare d'estate con la compagna e le due bambine Germana e Cecilia. E' stato Oreste del Buono a fiutare in lui il giallista e a spingerlo su quella strada. Con la spinta di del Buono Garzanti pubblica, dal 1966 in poi, Venere privata, Traditori di tutti, I ragazzi del massacro, I milanesi uccidono al sabato, Milano calibro 9. Il riconoscimento è immediato. Nel 1968 Scerbanenco guadagna a Parigi, il Grand Prix de la littérature policière, qualcuno entusiasmandosi scrive di lui: "Per un verso è Balzac, per un altro Simenon". Non è del tutto vero. Scerbanenco non è Balzac e lui per primo non ha mai pensato di esserlo. Però equivale a Simenon, su questo non ci sono dubbi, anzi è il solo scrittore italiano del genere che possa essere confrontato al grande francese, e non è detto, mettendo da parte i romanzi non gialli di Simenon, chi dei due abbia dato di più in termini di uomini e donne coinvolti in fatti di sangue e d'omicidio. Venere privata, per esempio, è il primo romanzo della serie in cui compare Duca Lamberti, l'equivalente di Maigret. Solo che Maigret è un poliziotto, sia pure a suo modo, Lamberti invece è un medico, anzi un medico radiato dall'Ordine per un caso di eutanasia, un uomo che, a torto o a ragione, si sente offeso dalla morale ufficiale e si muove lungo un discutibile crinale etico tutto suo in cui crede profondamente. Un protagonista così basta da solo a dare un sapore particolare alle vicende alle quali si mescola. Intorno c'è la Milano degli anni in cui la criminalità si apprestava a fare il grande salto: tratta delle bianche, le prime timide partite di droga e di armi da contrabbandare. Gangster molto impacciati rispetto a quelli che abbiamo conosciuto nei vent'anni successivi a questi romanzi, criminali che sono per metà manager per metà ancora artigiani. Ulrico Brambilla, quello che in Traditori di tutti dirige il losco traffico, è anche uno che gestisce come copertura alcune macellerie, tra una partita di merce e l'altra, sta dietro al banco e taglia fese e filetti, "un gangster macellaio". La ragazza che va da Lamberti a farsi ricostruire l' imene in vista delle nozze, recita anche lei una doppia parte, vamp da un lato, dall'altro una povera tipa di brianzola molto strapazzata dalla vita e dagli uomini. Della criminalità vera, quella che sarebbe venuta dopo, quella di oggi, ci sono già i connotati crudeli: le botte e le sevizie, le uccisioni gratuite, i tormenti e le umiliazioni. Le tecniche dei fuorilegge e la dimensione dei loro affari con gli anni si sono perfezionate, ma la spietatezza accompagnò il grande crimine fin dai primi passi. Al mondo del male che lo circonda quasi da ogni parte, Duca Lamberti oppone una sua ideologia che sembrerebbe reazionaria se Lamberti non fosse un uomo che scavalca la morale ufficiale, sia da destra che da sinistra, indifferentemente: "Non si può, non si può, la legge proibisce d'ammazzare le canaglie, anzi specialmente queste devono avere sempre un avvocato difensore, un processo regolare e un verdetto ispirato alla redenzione del disadattato, mentre invece si può, senza alcun permesso, innaffiare di proiettili due carabinieri di pattuglia, o sparare in bocca a un impiegato di banca che non si sbriga a consegnare le mazzette dei biglietti da diecimila lire...". La mia idea è che il riconoscimento che Scerbanenco sicuramente meritava sia stato impedito in parte dal provincialismo, in parte da questa sua ideologia che ogni tanto si affaccia nelle sue avventure. Visse i suoi ultimi anni (morì nel 1969) in un periodo in cui cose del genere non si potevano nemmeno concepire. Oggi che non è più così, si potrebbe finalmente recuperare quella che del Buono ha chiamato: la sua mistura slava, la capacità di fiutare il male e il dolore, l'umiliazione e il dolore, il delitto e il castigo.
CORRADO AUGIAS
Edited by irene48 - 11/3/2010, 11:23
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