SCERBANENCO IL ROSA E IL NERO, La Repubblica 25 ottobre 1995

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lu.ga
view post Posted on 14/3/2011, 20:52




Milano - Ogni tanto quella che fu la sua ultima amatissima compagna e le sue due figlie, lievi ragazze trentenni che gli somigliano eppure sono molto carine, ripescano in un cassone un manoscritto polveroso, un libriccino uscito durante la guerra e dimenticato.
I segugi degli editori rintracciano negli archivi suoi libri pubblicati trenta o cinquanta anni fa e li ristampano, entusiasti. Ma poi basta scartabellare le ormai sbriciolate raccolte violacee e marroni di Annabella, Novella, Bella, degli anni '50 e '60, per trovarsi immersi in una montagna di romanzi a puntate, racconti, poste con le lettrici (firmate Adrian su Annabella e Valentino su Bella), commenti, moralità.
Da ventisei anni la miniera Giorgio Scerbanenco è inesauribile. E' morto relativamente giovane, a 58 anni, nel 1969, dopo aver scritto senza sosta tutta la vita: in povertà e ricchezza, denutrito e con la macchina con autista, durante la guerra, in esilio, nel boom del dopoguerra. Scrivendo soprattutto d'amore, lui, sempre innamorato di donne facilmente folgorate dal suo fascino italiano (a dire slavo, lui, che era nato a Kiev da padre ucraino e madre romana, si offendeva mortalmente).
In questi giorni per i fan di Scerbanenco è un tripudio. Il Melangolo pubblica Non rimanere soli, un quasi inedito, scritto durante l' esilio in Svizzera e stampato nel 1945, subito dopo la fine della guerra da un piccolo editore, Baldassarre Gnocchi.
Garzanti, che segue il filone giallo, pubblica Al mare con la ragazza (prefazione di Piero Colaprico), già uscito nel 1973 e in precedenza pubblicato a puntate su un femminile Rizzoli.
Le edizioni «La vita felice» stampa Lupa in convento, un racconto molto amaro, di guerra, assolutamente inedito, che l'autore fece leggere al suo massimo estimatore, Oreste Del Buono, che non espresse subito un entusiasmo incondizionato.
Così l'orgoglioso Scerbanenco se lo riprese, e di quel racconto non si seppe più nulla: sino a quando Nunzia Monanni, la sua ultima compagna, non lo ritrovò, scritto a mano, nella cassa disordinata che lo aveva seguito al suo ritorno dalla Svizzera. Tra qualche giorno Frassinelli, appassionato di raccolte Scerbanenco, metterà in libreria quella che gli esperti chiamerebbero, facendo rabbrividire i lettori, una chicca: Cinque casi per l'ispettore Jelling raccoglie infatti le primissime storie gialle dello scrittore, pubblicate separatamente nei Gialli Mondadori negli anni '40, un paio (L'antro dei filosofi, 6 giorni di preavviso) ripubblicati nella stessa collana Mondadori negli anni '70.
Per i cultori di Luca Lamberti, il medico-detective radiato dall'albo per un caso di eutanasia, e protagonista di suoi romanzi neri come Venere privata, l'investigatore Jelling, archivista del dipartimento di polizia di Boston, schivo e gentile, sarà una curiosità.
Ogni volta che si pubblica un Scerbanenco, singolo o multiplo (I Cinquecento delitti, Il falcone e altri racconti inediti) gli ammirati critici tengono a rilevare la sua qualità di grande giallista italiano, di nero esploratore di una Milano nera e delle sue nere anime, allontanando tutta la sua immensa produzione «rosa» come secondaria, cose scritte per ragioni alimentari.
E io, che sui romanzi di Scerbanenco pubblicati a puntate sui femminili Rizzoli, mi sono fatta un' appassionata cultura sentimentale, ma forse anche professionale, mi offendo un po'. Ne parlo con Nunzia Monanni e con Cecilia Scerbanenco, la loro figlia minore, anche lei scrittrice: Germana, un anno in più, fa la veterinaria ed è al lavoro.
Ti ricordi? Nunzia era una burrosa ragazza appena ventenne, ridente, color perla, un gran seno occultato dai vestiti di allora, che non erano mai fatti tanto bene. Faceva servizi di moda per Annabella, dove Giorgio Scerbanenco era un re; la direttrice Antonia Monti aspettava i suoi romanzi col fiato sospeso, e lui arrivava, magro, alto, bruttissimo e affascinante, vestito di rosa e azzurro o bianco, con pagine e pagine di sue magie. Fu, tra lui e Nunzia, malgrado i 25 anni di differenza, un colpo di fulmine.
Il divorzio non c'era ancora, lui aveva lasciato la moglie tanti anni prima, aveva un figlio dell'età di Nunzia. C'era stata una amata compagna, Mutti, che è anche la protagonista di Non rimanere soli, con il suo vero nome, e una seconda, una nota signora milanese titolare di una sartoria.
Noi signorine di buona famiglia, appassionate dell'amore e di come lo raccontava Scerbanenco nei suoi romanzi e nelle sue poste, deploravamo o forse invidiavamo il modo in cui lo viveva. «Ma io non me ne sono mai preoccupata, eravamo felici. Siamo andati a vivere insieme, sono nate le bambine, lui ha lasciato la direzione di Bella, si è messo solo a scrivere romanzi, io ho piantato lì con la moda. Lui scriveva e scriveva, io gli stavo vicino. D'improvviso diceva, partiamo, e facevamo viaggi bellissimi. Io facevo solo quello che voleva lui, stavo proprio bene».
Serafica come allora, Nunzia e le figlie presiedono al tesoro che lo scrittore ha lasciato: conoscono a memoria tutti i suoi scritti, le date, i passaggi editoriali, i personaggi, continuano a parlarne come se lui fosse lì, in un'altra stanza della villetta dove abitano tutte e tre insieme. In Non rimanere soli, c'è molta autobiografia, una bambina morta a cinque mesi, una vita grama durante la guerra, la miseria di tutti, lo squallore di certe stanzette, la fame, ma anche due figure di donna molto nuove per quegli anni, donne forti, professioniste di successo, donne capaci di vivere solo con dignità o di dividersi tra amori diversi senza mai perdersi.
«L'ho ritrovato per caso, lui non me ne aveva parlato, come non mi parlava mai di quel periodo drammatico della sua vita, della fuga in Svizzera dopo l'8 settembre, del campo profughi, della casa amica dove si era rifugiato».
Nelle antologie che raccolgono la sua ricca produzione, non sempre si ricorda che certi gialli che l'hanno reso famoso uscivano a puntate su Novella, che molti pezzi brevi erano pubblicati ogni settimana su Novella in una pagina intitolata «Il quattro novelle»; che se negli ultimi anni suoi racconti gialli furono pubblicati dalla Stampa e suoi articoli da Oggi, Europeo, la Domenica del Corriere, sono stati i giornali femminili a raccogliere le sue storie più belle.
Mi ricordo ancora adesso la passione che mi suscitò la serie dei «Sette peccati capitali», delle «Sette virtù capitali», che uscirono sulla Novella diretta da Carlo Sprea, e ripubblicati alla fine del 1994, nei Cinquecento delitti. Ci sono intere generazioni di donne che si sono emancipate, e hanno capito la vita che nessuno gli spiegava, leggendo i romanzi «rosa» di Scerbanenco (e di Brunella Gasperini, e di Luciana Peverelli, e di Teresa Sensi), che spesso erano anche rari, ma gli uomini e i letterati non lo sapevano perché ignoravano la stampa femminile, perché fatta per le donne, cioè bassissima.
Invece allora, e talvolta anche oggi, nel mare di pettegolezzi anche politici che invadono quotidiani e settimanali di attualità, ora è solo sui femminili che si trovavano, si trovano, articoli scritti bene, che non temono l'aborrita cultura.
Ancora, e forse per fortuna, sono ancora solo le donne a goderne. Oreste Del Buono, nella sua prefazione a Il falcone e altri racconti inediti uscito da Frassinelli un paio di anni fa, ricorda che quella serie di celebri racconti classici da Boccaccio a Cechov, riscritti da Scerbanenco, furono ordinati da Vittorio Buttafava per Annabella. Eppure la parola "rosa", impropria, viene sempre usata in termine limitativo, anche per Scerbanenco: che anche nel glorificato "nero", ha i suoi momenti più belli proprio nei passaggi sentimentali, «rosa».

NATALIA ASPESI
 
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