Montanelli ricorda Scerbanenco

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tommaso berra
view post Posted on 20/11/2011, 10:49




«Giorgio Scerbanenco è morto. Non lo vedevo da venticinque anni, da quando eravamo rifugiati in Svizzera. Ma se non proprio di dolore, provo una trafittura di rimorso. Forse sono il solo, o comunque uno dei pochi a essermi accorto che Scerbanenco valeva molto più della quotazione, cioè della non-quotazione che la critica gli assegnava nella borsa dei valori letterari. Come costruttore di racconti, non era da meno di Moravia, e in quelli polizieschi era sul livello di Simenon. Eppure, non l'ho mai detto, non ho mai mosso un dito né speso una parola per riscattarlo dall'avvilente condizione di romanziere da rotocalco. E lui non me lo ha mai chiesto. È uno dei pochi autori che non mi hanno mai mandato i suoi libri né sollecitato una recensione. Questo ucraino cresciuto in Italia, più lungo e più secco di me, con un viso di cavallo stralunato, era un uomo pieno di dignità».
Questo splendido ricordo-ritratto di Scerbanenco è uscito dalla penna di Indro Montanelli e si può leggere in I. Montanelli, I conti con me stesso. Diari 1957-1978, pagina 111. L'ho tratto dal saggio introduttivo di Andrea Paganini a "Patria mia", l'ultima opera di Scerbanenco pubblicata (era inedita in volume) dall'editore Aragno nell'anno centenario del "milanese di Kiev". Mi è sembrato utile riprodurlo nel nostro sito perché nella sua brevità è perfetto per capire la statura intellettuale e morale di Scerbanenco colta da un osservatore d'eccezione quale Montanelli senza dubbio era.
Leggendo l'introduzione a "Patria mia" si apprende qualcosaltro di interessante sul breve sodalizio svizzero dei due grandi giornalisti e scrittori in quel momento esuli. Scerbanenco incontrò nei Grigioni Indro Montanelli, che come lui era un ex collaboratore del "Corriere della Sera", il quale viveva a Davos, non lontano da Coira, dove si trovava invece Scerbanenco. Montanelli era allora in procinto di pubblicare sull'"Illustrazione ticinese", a firma Calandrino, un lungo romanzo-saggio, in veste di finto memoriale, dal titolo "Ha detto male di Garibaldi", un'opera antifascista maturata - diceva Montanelli - dal di dentro, attraverso l'esperienza fascista.
Montanelli presenta Scerbanenco al direttore del settimanale ticinese, Aldo Patocchi, pregandolo di accogliere anche una sua collaborazione: «Circa la persona, ne resto garante io sia dal punto di vista morale che da quello professionale […]. A Scerbanenco ti prego di rispondere direttamente perché le sue proposte, accettabili o no, mi sembrano tuttavia meritevoli di risposta. Lo è ad ogni modo la sua persona, che pubblicò l'anno scorso, a puntate sul "Corriere del Pomeriggio", un romanzo a successo. E il successo ci fu sul serio».
Il giorno dopo Scerbanenco scrive all'amico sacerdote di Poschiavo don Felice Menghini, direttore de "Il Grigione Italiano": «Sono alla vigilia di cose abbastanza importanti per me, cioè per il mio lavoro, e non di guadagno materiale, ma di attività che mi toglierà un poco da questa inazione davvero avvilente. Ma ho bisogno del Suo aiuto […]. Io Le mando anche un breve trafiletto che Lei potrà pubblicare come notizia nel prossimo numero. Indipendentemente dal mio personale interesse in questa cosa, ritengo che sia una notizia da dare perché il lavoro che pubblica l'«Illustrazione Ticinese» è di alto e emozionante interesse, davvero, per tutti coloro che amano l'Italia. Veda se può far pubblicare questo trafiletto anche dalla «Voce della Rezia». Per la Sua amicizia al dottor Zendralli non dovrebbe esserLe difficile». Il trafiletto riguarda appunto il romanzo-pamphlet di Montanelli, che Scerbanenco presenta a don Menghini con queste parole: «Di "Ha detto male di Garibaldi", posso dirle soltanto che non è mio. Può vederlo da Lei stessa pensando che io non sono mai stato mischiato a nulla della vita ufficiale o ufficiosa del partito [fascista]. Non ho combattuto in Africa, né altrove (almeno questo mi è stato risparmiato, di uccidere i miei simili, costretto da ordini di quella gente) e la mia partecipazione si è limitata a pagare, sempre in ritardo e sempre malvolentieri, i vari balzelli imposti. Ciò non mi risparmierà di essere creduto fascista al mio ritorno, come prima ero creduto antifascista. In fondo, ciò che la massa persegue è l'uomo intelligente, egregio nel senso primitivo latino. Lei lo saprà benissimo, vero?». Montanelli scriverà ancora a Patocchi di Scerbanenco, il 12 gennaio 1945, in questi termini: "Grazie anche per Scerbanenco. E' un ragazzo d'ingegno e un galantuomo. Spero che v'intenderete". Da rilevare, a proposito del "ragazzo", che Montanelli aveva solo due anni in più di Scerbanenco.
Nel febbraio del 1945, probabilmente grazie all'intercessione di Montanelli - scrive Andrea Paganini nella sua introduzione a "Patria mia" - Scerbanenco viene invitato dall'Agenzia Consolare di Davos a tenere una conferenza ai suoi connazionali (oltre cento i presenti): «[…] lo scrittore Giorgio Scerbanenco ha parlato indicando l'esempio di unità e di fiducia che dà il combattente italiano, e insistendo perché questa fiducia nella ricostruzione, e questa unità, ispirino tutti gli Italiani, nonostante le difficoltà, le distruzioni della guerra, e le divisioni ideologiche».
Lette queste interessanti note biografiche sul rapporto tra Montanelli e Scerbanenco, mi sono chiesto - e chiudo con questo forse inutile interrogativo - come sia stato possibile che i due, legati da reciproca stima, entrambi giornalisti affermati a Milano, una città tutto sommato "piccola", non si siano mai più incontrati nei successivi venticinque anni. Forse è stato un peccato.


 
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